ArcheOlbia guida turistica Olbia archeologia della sardegna


Associazione ArcheOlbia
Promozione e Valorizzazione dei Beni Culturali

Guida turistica - Accompagnatore turistico - Attività didattiche - Corsi di formazione - Progettazione di attività culturali

ArcheOlbia
Piazza San Simplicio c/o Basilica Minore di San Simplicio
07026 Olbia (OT)
archeolbia@gmail.com
3456328150 Durdica - 3425129458 Marcello -
3336898146 Stefano
C.F. 91039880900


“Aprire il passato significa raccontarlo. Alla comunità scientifica sì, ma soprattutto alla comunità dei cittadini cui il lavoro degli archeologi e, più in generale, degli operatori dei beni culturali deve rivolgersi.”.

venerdì 30 settembre 2016

ArcheOlbia - I porti e approdi nuragici nella Sardegna del Bronzo Medio

di Marcello Cabriolu
ph Durdica Bacciu


archeolbia
Il fattore che rende omogenei i centri del Bronzo Medio consta nell’edificazione e nell’espansione degli stessi tendenzialmente su giare, altipiani o rilievi dominanti il territorio. Tale criterio venne attuato anche in prossimità della costa in quei luoghi dediti alle concentrazioni di beni e prodotti da esportare, quali ad esempio i metalli di cui la Sardegna è ricchissima, oppure appena approvvigionati e da distribuire nel territorio circostante. Il contesto marino caratterizzante Bronzo Medio, Bronzo Recente e Bronzo Finale è sicuramente diverso dalla situazione attuale e ciò è testimoniato dalle varie attività di studio condotte nel Mediterraneo Occidentale, le quali disegnano, per l’epoca in esame, delle condizioni di regressione marina comprese tra i -10 e i -5 mt rispetto al livello marino attuale[1]. La scelta di promontori - pratica testimoniata anche dai gruppi umani stanziati nell’Egeo[2] -, ma anche dell’interno di foci (quali ad esempio il Rio Palmas a Masainas, contesto denominato in epoca romana Sulcitanum Portus), opportunamente riparati ai venti dominanti e già anticamente sfruttati per le esportazioni di legname, ossidiana, rame e argento, favorì l’evolversi e il consolidarsi degli antichi punti di concentrazione dei prodotti in grossi scali marittimi. E’ verosimilmente corretto dichiarare che nei contesti portuali del Bronzo Medio, oltre alle operazioni di imbarco e sbarco,  trovavano luogo anche tante altre attività quali i cantieri navali, l’industria conserviera del pescato e quella di lavorazione ed estrazione delle tinture. Ricalcando un’abitudine di origine probabilmente neolitica, i grossi insediamenti quali Tharros, Othoca, Sulky, Nora, Karalis, Nure ebbero i loro sistemi portuali opportunamente orientati e basati sul criterio del doppio approdo da sfruttarsi alternativamente a seconda delle stagioni e dei venti dominanti. Naturalmente questa predisposizione non era prerogativa esclusiva dei grandi centri ma si dimostrò carattere comune di parecchi insediamenti, anche secondari, dediti all’imbarco di merci e soprattutto metalli verso il Levantino. Percorrendo in senso orario le  coste della Sardegna si possono osservare, a partire dall’Ogliastra, i seguenti Nuraghi, che individueremo semplicemente con “N.”: alle spalle del sistema minerario del Monte Albo il N. Muriè, l’insediamento di Santa Maria del Mare, alla foce del Cedrino, e il N. D’Ordignai, i quali controllavano l’imbarco dei  minerali, quali argento, piombo e zinco provenienti dai giacimenti di Guzzurra, Argentaria e Sos Enattolos[3] e delle merci provenienti dall’entroterra.
archeolbia
La zona di Cala Gonone più a sud era controllata dal sistema portuale facente capo al N. Arvu, sistemato allo sbocco della Valle di Lanaitho. Alle spalle dei giacimenti del Gennargentu si può rinvenire Porto Quao, letteralmente “porto nascosto”, nel quale veniva concentrato il materiale proveniente da Genna Arramene (porta del Rame) e dal giacimento di argento e piombo di Corr’e Boi[4],  sul Monte Arbu. Tra lo stagno di Tortolì e Girasole sorse il centro di Surci, con il chiaro intento di sfruttare i prodotti minerari, quali argento, piombo e zinco, provenienti da Corr’e Boi[5] e dall’Ogliastra (nello specifico da Baunei) dove si sfruttavano i giacimenti di Genna Olidoni ricchi di piombo, zinco e argento[6]. Per imbarcare il materiale si sfruttavano le insenature con torri costiere come quella del N. Moru a Barisardo o ancora il piccolo centro ora conosciuto come N.S. del Buoncammino, poco a nord di Marina di Gairo. Nella Quirra, alle spalle del sistema minerario omonimo, si rivelano diversi insediamenti dediti al controllo della costa e allo sfruttamento della zona mineraria di Baccu Talentinu a Tertenia, ricca di piombo, argento e rame[7]. Essi sono: Nuraghe Sa Foxi Manna e N. Aleri a Foxi Manna; N. Anastasi e N. Punta Moros, a controllare Porto Santoru. Il porto di Quirra era controllato dai N. D. Murtas e N. Serbiola, alla foce del Frumini Durci. Alla foce del Flumendosa, nel Sarrabus, si presentano i N. Franzesu e Perda su Luaxu, a soprintendere al commercio marittimo dei prodotti della miniera di Baccu Locci, quali piombo, argento, rame e arsenico. Mentre più a sud,  tra lo stagno di Colostrai e il  Monti Ferru, punti minerari locali, sorgeva Porto Pirastu con riferimento all’approdo nel N. Pirastu. Questo porto verosimilmente imbarcava i materiali, quali piombo, zinco e argento, provenienti dai giacimenti di Brecca e Monte Narba di San Vito. A sud della Costa Rey si apre Cala Sinzias, coi N. Sinzias e Figu Niedda, a controllare l’approdo dell’ennesimo giacimento sistemato sull’ennesimo Monte Arbu. Cala Piras e Punta Molentis, coi N. Porceddus e Punta Molentis delimitano il profilo est del Golfo degli Angeli, creando insieme al sito dell’isola dei Cavoli, con il N. Isola dei Cavoli, un punto nave per l’atterraggio a Karaly. Solanas e Carbonara coi N. Manunzas, Giardone e Cuccureddu, e ancora Geremeas col N. Genn’e Mari, verosimilmente favorivano la funzione descritta per i contesti precedenti, intuibile anche analizzando proprio il toponimo di quest’ultimo Nuraghe, Genn’e Mari, ovvero “Porta del Mare”. Is Mortorius, coi N. Diana e N. Capitana, rappresentava probabilmente il finale per l’atterraggio al porto di  Karali, forse sistemato dentro lo Stagno de Santa Illa (l’Isola Santa) dove tuttora si trova Sa Illetta, “l’Isoletta”.
archeolbia
Il centro urbano di Nora trova con Porto Agurnu uno scalo favorevole, supportato inoltre, a Sarrok, dai N. Sa Dom’e s’Orku e Antigori, e a Perd’e Sali dal N. Mereu, per la gestione del materiale proveniente dall’entroterra e per la distribuzione dei prodotti provenienti dal Levantino. Tuerredda coi N. Tuerredda e Nuraxi de Mesu e Capo Malfatano col N. de sa Canna costituivano il punto d’attracco e di inoltro verso il cuore del Sulcis. Al centro del contesto sulcitano si possono trovare insediamenti quali ad esempio il contesto di Su Benatzu, di Monte Cerbu  e di Mont’Ega  dove si estraeva argento, piombo argentifero e rame[8], e ancora i contesti di fruizione dei giacimenti delle miniere di Monte Orbai e di Monte Rosas, le quali fornivano piombo zinco e argento. Porto Tramatzu col N. Maxinas, Porto Zaffaranu coi N. Zaffaranu e N. Antiogu, alle spalle del Sulcitanum Portus, dovevano verosimilmente instradare verso il Golfo di Palmas e le sue saline, tramite anche i N. Turritta, Sa Guardia Nuragoga e Sa Perda. Il porto di Coacuaddus (Sant’Antioco), realizzato per sfruttare i giacimenti di argento e piombo argentifero dell’isola di Sant’Antioco, si basava sul sistema di atterraggio creato dai N. Montarveddu, Cala Bianca, N. ‘e Mori e S’Acqua ‘e sa Canna, mentre il porto estivo di  Cala Saponi, sempre sull’Isola di Sant’Antioco, coi N. Sa Cipudditta e Gianni Efis, consentiva l’accesso alla piana degli antichi vigneti (edotto dal toponimo Triga) e permetteva lo sviluppo della mattanza durante il periodo della luna crescente di maggio. Il Nuraghe di San Vittorio, sull’omonima isoletta vicina all’isola di San Pietro, controllava la salina e le cave di ocra. Il porto di Gonnesa coi N. Serucci e Su Arci aveva la responsabilità dell’approdo per lo sfruttamento della lignite, del piombo, dello zinco e dell’argento estratti dai giacimenti di Monti Onixeddu, Sedda Moddizzis e Monti Sinni[9], oltre ad ospitare una tonnara per la mattanza dei tonni. Il N. Conca Muscioni a Capo Pecora controllava l’approdo per le miniere d’argento di Monte Argentu e per quelle di stagno di Fluminimaggiore, oltre ai giacimenti di piombo e zinco di Su Zurfuru, Candiazzus, Gutturu Pala, S’Acqua Bona e is Arenas o ancora il materiale proveniente dai giacimenti di Perda Pibera e Fenugu Sibiri, come ad esempio il ferro[10]. I N. S’Enna ‘e s’Arka e Ingroni Santadi  di Capo Frasca fornivano l’instradamento per il porto di Neapolis, che verosimilmente doveva concentrare le risorse minerarie del guspinese. I N. Boboe Cabitza  e quello sottostante alla Torre di San Giovanni gestivano il doppio approdo di Tharros. Il N. Malu Entu sull’isola omonima e i N. Uracheddu Piudu e Abilis di Putzu Idu verosimilmente proteggevano il contesto del Montiferru e instradavano verso il porto di Cornus, a S’Archittu, con i N. Cornus e Crostachesu, terminali di un porto dedito all’imbarco dei prodotti dell’entroterra. 
archeolbia
Con il N. Foghe, nell’omonima località (la foce del Rio Mannu vicino Cuglieri), trovava sbocco al mare il sito del N. Nuracale, mentre nel contesto di Magomadas con l’attuale Santa Maria del Mare si apriva la via dell’altipiano di Campeda e del Marghine. I N. Palmavera e Sant’Imbenia controllavano l’imbarco di Porto Conte (Alghero) ed insieme a Porto Palmas costituivano i punti d’imbarco del minerale estratto dall’Argentiera quale piombo, argento, zinco, rame e ferro[11] . La conformazione tipica di un porto nuragico del Bronzo Medio si può osservare in quei contesti dove si presentano strutture a strapiombo sul mare, quali i nuraghi e i segnalatori, disposti in maniera tale da delineare il profilo costiero. L’utilizzo di queste strutture  sistemate a distanza ravvicinata tra loro, conduce indiscutibilmente ad un contesto portuale, in cui la navigazione e l’atterraggio sono permessi da combinazioni di allineamenti tra edifici - come ad esempio il “Nuraghe ‘e Mori” con Cala Bianca a Sant’Antioco oppure ancora “Lu Brandali” a Santa Teresa di Gallura - atti alla segnalazione di condizioni di pericolo oppure di varchi aperti per la fruizione portuale. Questi antichi porti offrivano dei doppi approdi, al riparo da qualsiasi vento, in modo sia da controllare il tratto di costa antistante sia da difendere in maniera efficace l’entroterra prossimo al punto di atterraggio, offrendo inoltre la possibilità di sfruttare la pescosità dei litorali e l’accumulo di sale negli stagni costieri. E’ doveroso segnalare che le ricognizioni subacquee nei siti di Nora e di Tharros, tra loro molto simili, stanno rivelando ora quelli che erano gli antichi contesti portuali, con banchine e approdi e la relativa funzionalità di questi, oltre ad un gran numero di ancore in pietra di forma trapezoidale con angoli smussati, un foro sul lato minore e due perforazioni inferiori per accogliere i puntali in bronzo per l’ancoraggio al fondo marino. In modo particolare il contesto norense mostra la complessità del promontorio segnato da moli paralleli in grado di offrire più approdi anche per imbarcazioni di diverso cabotaggio[12]. Anche il complesso di Sulky, probabilmente basato su una grossa penisola, di dimensioni senz’altro maggiori dell’attuale Isola di Sant’Antioco, mostra numerose strutture sommerse sia nell’attuale laguna che nel Golfo di Palmas - all’altezza della arcaica foce del complesso fluviale formato dal Riu Maquarba/ Santu Milanu, entrambi confluenti nel Rio Palmas - dimostrando che nell’epoca indagata la laguna e parte del Golfo erano terre emerse. Si può asserire, con un buon margine di precisione, che il Sulcitanum Portus articolasse il suo doppio approdo tra le attuali insenature di Coecuaddu e Porto Botte - riparate rispettivamente al maestrale e allo scirocco, ovvero i venti dominanti nell’ampio bacino del Sud Ovest - per la presenza in questi due contesti di moli d’approdo, acqua dolce in riva al mare, fornaci per l’estrazione dei metalli e di un retroterra ricco di risorse agricole e minerarie facilmente fruibile per le comode vie di collegamento.
archeolbia
Naturalmente l’approccio marino riguardava anche le isole che fanno da corollario alla Tyrrenide, come appunto vengono testimoniati approdi e capisaldi sistemati in contesti quali ad esempio l’isola di Maluentu  o anche l’isola di San Pietro[13], dove vicino a punti d’imbarco vengono testimoniati le prime tonnare. Un gruppo etnico come i Sardi, in costante contatto con l’elemento acquatico e con una profonda cultura marinara, avrà sicuramente sfruttato il movimento circolatorio delle correnti superficiali e la predominanza di particolari venti che caratterizzano le stagioni nel bacino del Mediterraneo per spostarsi e commerciare o anche dominare sulle acque del Levantino. La presenza di bassi fondali in qualche modo ci dà un’indicazione su quali fossero le caratteristiche che contraddistinguevano le imbarcazioni dell’epoca - ad esempio una chiglia piatta -, come d’altronde viene testimoniato pure da alcuni modelli di navicelle bronzee, che pur costituendo un oggetto votivo rappresentano uno modellino in scala delle reali imbarcazioni e quindi una testimonianza di confidenza con il mezzo acquatico. Tutt’ora permangono in Sardegna dei veri e propri “fossili guida” quali “is Cius” e “is Fassonis”, imbarcazioni tipiche rispettivamente della laguna di Sant’Antioco e dello Stagno di Cabras, accostabili, in modo particolare i secondi, alle imbarcazioni che percorrevano il fiume Nilo. Rimane inoltre un altro particolare arcaico legato alla navigazione, quale l’uso della vela “trina”, ridefinita erroneamente come vela latina, a cui viene imputata un’origine in epoca storica.
archeolbia
Tuttavia essa è indubbiamente molto più antica tanto che trova riscontro nelle feluche egizie. L’analisi dei sistemi portuali ha indotto a considerare questi come inseriti nel contesto rurale e territoriale e non semplicemente cittadino.




[1] M. Tzoroddu, Kirkandesossardos – Sardegna, ricerca dell’origine, Zoroddu Editore, Fiumicino 2008, p.101, fig.7, p.102, fig.8
[2] R. W. Hutchinson, L’Antica civiltà cretese, Einaudi, Torino 1976, p.78
[3] M. Cabriolu, G. Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, Envisual, 2005, p.21 tav. 1
[4] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[5] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[6] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[7] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[8] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[9] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[10] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[11] Cabriolu, Vargiu, Cercando Metalla. La geografia antica del Sulci, p.21 tav. 1
[12] S. Moscati, Fenici e Cartaginesi in Sardegna, in Piero Bartoloni (a cura di), ILISSO Edizioni, Nuoro 1968, pag.138
[13] P. Bartoloni, I Fenici e Cartaginesi in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 2009, p.92

sabato 17 settembre 2016

ArcheOlbia - Sant'Antioco di Bisarcio (Ozieri)

di Marcello Cabriolu
Ph D.Bacciu
durdica bacciu
Isolata su una collina in mezzo alle campagne, a ridosso di uno strapiombo roccioso, in agro di Ozieri, sorge la monumentale chiesa dedicata a Sant'Antioco di Bisarcio. Eretta in tre momenti differenti a partire da prima del 1090 fino al 1190, e ricostruita nel XII sec. in seguito ad un incendio, fu cattedrale della Diocesi di Bisarchium, quindi sede vescovile, dall'XI sec. fino al 1503.
durdica bacciu
Una delle cose che la rendono unica, rispetto a tutte le altre chiese sarde, è il fatto che il portico, antistante la facciata, si sviluppa su due livelli. Il livello inferiore del prospetto si presenta tripartito da due archi laterali bisomi - uno dei quali tamponato – e da uno centrale che immette al nartece. Piccole facce accompagnate da foglie sono disposte all'imposta delle tre arcate, mentre due oculi, uno pieno a ruota e l'altro dentellato, decorano le lunette.
Fino a qualche decennio fa ambedue le bifore del prospetto erano tamponate, mentre successivamente si è deciso di ripristinare quella di destra, e di caratterizzarla con un leone con collare e dal muso rovinato, che sorregge la colonna a decorazione spiraleggiante. Una scena di vita agreste e di aratura si sussegue sulla parte superiore dell'arco centrale con bovini e altri animali, mentre la parte inferiore è caratterizzata da un alternarsi di motivi floreali, coppe e serpenti.
durdica bacciu
La chiave di volta è occupata da una piccola croce ansata. L'arco sinistro del prospetto appare decorato da un'assemblea di 15 personaggi presieduta da due angeli alati che occupano il centro della scena. 4 bacini ceramici con decorazioni di soli, tutti differenti, si intervallano ordinatamente ad ogni arco. Il timpano presenta la facciata piena se non per la presenza di una finestra arcuata e della parte destra abbellita da quattro archi gotici le cui mensole d'appoggio sono decorate da facce. Una risiega sovrasta i quattro archi gotici, sormontata da due piccole colonne decorate con capitelli. Una figura femminile a mani giunte sovrasta la scena nell'apice del timpano.
durdica bacciu
Sulla parte destra della facciata residua ancora l'ammorsatura di giunzione con una struttura prossima alla chiesa. Il portico si mostra coperto da 6 volte a crociera divise da arcate poggiate sia sul perimetro esterno che su due pilastri centrali di sezione cruciforme. Si raggiunge il piano superiore del portico, composto da tre ambienti voltati a botte, attraverso una scala ricavata nella massa muraria.
durdica bacciu
Il primo ambiente, terminata la scala, è caratterizzato dalla presenza, nel restrospetto, di una nicchia arrotondata sormontata da una cappa a foggia di mitra vescovile, la postazione congeniale per l'autorità religiosa che presiedeva l'assemblea del clero. Questo primo ambiente è caratterizzato dalla presenza di una risega o sedile, murato alla parete lunga, elemento questo che sottolinea il carattere di luogo destinato ad assemblea o udienze con l'autorità reggente la Chiesa, già segnalato precedentemente. La parte profonda di tale ambiente, corrispondente al prospetto originario della Cattedrale, mostra il residuo dell'antico timpano, con l'incavo per un bacino ceramico dove venne ricavata, in alto, una lunga e sottile monofora, aperta ai quadranti del sole nascente, il cui fascio di luce, secondo probabilmente uno schema predeterminato, raggiungeva lo spazio occupato dalla nicchia sormontata dalla mitra.
durdica bacciu
Numerose incisioni, antiche e recenti, sono state riprodotte nelle pareti di questo ambiente: il motivo più ricorrente è quello della forma di un “piede”, simbolo dei pellegrini, ma si riconoscono anche motivi floreali accompagnati da spirali e numerose iniziali e nomi estesi di pellegrini o semplici visitatori, transitati negli ambienti durante i decenni.
durdica bacciu
La parte profonda della camera centrale è costituita dall'antico prospetto della chiesa diviso in due registri. Il registro inferiore si mostra tripartito da tre archi le cui imposte poggiano su due lesene. Sottostanti agli archi esterni residuano modanature cieche romboidali, mentre le due lesene incorniciano un'elegante bifora, sistemata sotto l'arco centrale e aperta sull'aula. Il registro superiore si mostra sgombero ad eccezione di una modanatura a croce greca aperta anch'essa sull'aula e di un incavo per un bacino ceramico aperto all'esterno, allo scopo di dare luce all'ambiente. Sotto questa scena venne sistemato un altare e sulla parete settentrionale venne incisa, in lettere gotiche, l'epigrafe-dedicazionale.
durdica bacciu
L'aula si presenta costituita da tre navate: la centrale coperta a doppio spiovente in legno e le laterali, più basse, coperte con 7 volte a crociera ciascuna. L'impianto interno è scandito da arcate impostate su 5 coppie di colonne poste lungo l'asse longitudinale dell'edificio e 1 coppia di pilastri a sezione cruciforme a riprendere il motivo tripartito visibile all'esterno. Le colonne presentano dei capitelli con decoro vegetale mentre uno dei pilastri mostra una cornice con una figura umana.
Il presbiterio,  elevato di qualche gradino, conduce all'abside dotato di una monofora con doppio strombo e centina  semicircolare.


Basilica S. Antioco di BisarcioDal martedì alla domenica:  9.30 - 13.00  /  15.00 - 19.00 - chiuso il lunedì

 
Orario Invernale
Basilica S. Antioco di BisarcioDal martedì alla domenica: 10.00 - 13.00  / 14.00 - 17.00 - chiuso il lunedì

  Per Informazioni:
Istituzione San Michele - Tel. 079781236 - 079787638 - promozione.istituzione@comune.ozieri.ss.itsegreteria.istituzione@comune.ozieri.ss.it

Bibliografia: 
Roberto Coroneo, Salvatore Naitza; Donatello Tore, Architettura romanica dalla metà del Mille al primo '300, Nuoro, Ilisso, 1993
Raffaello Delogu, L'architettura del Medioevo in Sardegna, Roma, La Libreria dello Stato, 1953, ISBN non esistente. 
Francesco Amadu, Giuseppe Meloni, La Diocesi medioevale di Bisarcio, Sassari, Carlo Delfino editore, 2003
Franco Laner, Anna Pala, Sant´Antioco di Bisarcio, chiesa ex cattedrale nel campo di Ozieri, Mestre, Adrastea, 2003


mercoledì 14 settembre 2016

ArcheOlbia - Il dolmen di San Silvestro (Puglia)

AA.VV. e Marcello Cabriolu
Ph. Internet

 

Il Dolmen di S. Silvestro è, per quanto sinora si conosca, per le sue dimensioni ed in quanto particolarmente ben conservato nella sua architettura complessiva, il monumento più rappresentativo del genere della tomba a galleria, ben attestato da altri esempi nel barese (dolmen di Bisceglie e di Corato). L'intervento di restauro conservativo, seguito alla sua scoperta fortuita nel 1961, ha fatto sì che il monumento possa ancora essere visitabile nonostante l'esposizione alle intemperie. 
 Databile alla media età del Bronzo (prima metà del II millennio a.C.), sorge su uno dei terrazzi pianeggianti, tipici della Murgia barese, degradanti verso la costa, incisi perpendicolarmente del corso delle lame, antichi solchi erosivi a carattere torrentizio lungo il cui percorso si sono attestati i principali insediamenti dell'antichità sin dal Neolitico. L'erezione dell'imponente monumento, riservato alla sepoltura di gruppi di rilievo nell'ambito della comunità, potrebbe forse essere attribuita a quelle del centro costiero a pochi chilometri di distanza sull'Adriatico, sito sul basso promontorio occupato oggi dall'odierno abitato di Giovinazzo, secondo un modello ricorrente nella prima metà del II millennio a.C. Sotto il cumulo di pietrame, in parte moderno, che lo ricopriva, detto "Specchia Scalfanario", di forma subcircolare con un diametro di m 35 ed un'altezza di m 4 si conservava il tumulo vero e proprio, costituito da pietrame di medie dimensioni e contenuto entro una crepidine di lastre calcaree alta m 1,30, con una pianta circolare del diametro di m 30. Al di sotto ancora, una costruzione in opera muraria a secco con pietre scelte e ben tagliate nella locale pietra calcarea, alta m 2, a pianta ellittica con uno sviluppo massimo di m 7,50 inglobava un lungo vano a galleria con andamento nord-sud (dolmen), eretto con l'impiego di lastroni infissi verticalmente e coperti da analoghi in senso orizzontale per una lunghezza di m 17, purtroppo danneggiato al momento della scoperta e diviso in due tronconi.


Per impermeabilizzare l'interno, un letto di scaglie ricoperto da uno strato di intonaco argilloso rivestiva le lastre di copertura. All'estremità meridionale si apriva infine un ambiente probabilmente scoperto a pianta circolare sulla cui parete, in corrispondenza della galleria, un portello rettangolare immetteva all'interno come accesso vero e proprio, utilizzando per le pratiche funerarie connesse con la deposizione dei defunti. Analogo portello si apriva sul lato opposto, a Nord. Nel troncone settentrionale, al momento della scoperta, si conservava ancora il piano di deposizione delle sepolture, suddiviso in setti tramite due lastre verticali, con i resti di tredici individui e del corredo funerario. Di questo rimanevano soltanto alcuni frammenti di vasi in impasto di tipologia protoappenninica, testimonianza superstite di corredi che dovevano comprendere probabilmente anche beni di prestigio, considerato il rango degli inumati cme armi e monili in bronzo o altro materiale prezioso, come ambra, pietre dure ecc. L'esplorazione archeologica dell'ambiente circolare ha inoltre provato che l'area del dolmen era già frequentata per scopi sepolcrali prima della sua erezione, sempre nell'ambito della media età del Bronzo, e che era interessata ancor prima, nel V millennio a.C., da un insediamento del Neolitico Antico.

Testi, disegni e ricostruzioni sono di L. Maletti e F. Radina


Posizione Geografica
Territorio circostante nell'eta' del bronzo
Ritrovamento
Il 15 Aprile 1961 l’arch. Antonio Milillo, Ispettore Onorario alle Opere di Antichità e arte del territorio di Giovinazzo in provincia di Bari, comunicava al Soprintendente alle Antichità della Puglia, dott. Nevio Degrassi, che a pochi chilometri dalla città, sulla strada comunale per Terlizzi, durante i lavori di sbancamento di un gran cumulo di Pietrame, eseguiti dalla locale Impresa Stradale F.lli De Venuto, venivano in luce “delle gallerie formate da larghi lastroni disposti verticalmente e coperti da altre grandi lastre in senso orizzontale, molto simili a dolmen”.
A corredo della segnalazione il Milillo inviava alcune fotografie, le quali confermavano l’importanza del ritrovamento. Inviato immediatamente sul luogo della scoperta, non potei che constatare lo scempio subito dal monumento, ch’era servito nello spazio di pochi giorni da comoda cava di materiale litico riducibile in pietrisco stradale. Posti sotto controllo gli ulteriori lavori dell’impresa, limitati ora esclusivamente alla completa rimozione dei materiali di risulta, e provveduto con la solerte collaborazione dell’arch. Milillo al puntellamento delle strutture megalitiche più fatiscenti del monumento, fu purtroppo a distanza di qualche mese che, rompendo gl’indugi e le pastoie burocratiche, assunsi l’iniziativa, dopo di aver potuto salvare il salvabile, di intraprendere una breve campagna di esplorazione archeologica che servisse a chiarire i molti problemi connessi con l’importanza scoperta e avesse anche lo scopo di intervenire con una opportuna opera preliminare di restauro (Il restauro definitivo del monumento, che convenzionalmente chiamo “dolmen a galleria”, verrà eseguito prossimamente a cura della Soprintendenza alle Antichità della Puglia)sulle parti superstiti del monumento.
Pertanto, preso ogni accordo con il proprietario del fondo, il quale acconsentì che da parte della Soprintendenza venissero adottate le più urgenti misure atte ad assicurare la conservazione e la valorizzazione del ritrovamento e incoraggiato dalla fattiva e apprezzata collaborazione delle Autorità Comunali di Giovinazzo, nella seconda metà di agosto dello stesso anno 1961 diedi inizio ad una minuziosa esplorazione del monumento, che, per quanto compromessa in partenza dagli irreparabili danneggiamenti da esso subiti, si rilevò presto di eccezionale importanza scientifica, consentendo oltre che la classificazione tipologica e la ricostruzione grafica del manufatto, anche la sua determinazione cronologica nel quadro dell’architettura megalitica protostorica pugliese e mediterranea.

Testi tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice LoPorto (Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII - Volume76-1967)

Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA


Descrizione Monumento
La località del ritrovamento è detta “S. Silvestro”. Sita nella piana di Giovinazzo a circa m 70 s.m. nel terreno di proprietà del sig. Vincenzo fiorentino, dove l’enorme accumulo di pietre in cui affondavano le radici annosi carrubi prendeva il nome di “Specchia Scalfanario”, distante m 80 circa dalla strada intercomunale che da Giovinazzo conduce a Terlizzi e fiancheggiata da un sentiero che ha inizio sul lato ovest della stessa strada, a km 4.100 dal passaggio a livello della linea ferroviaria Bari-Foggia, prima di inoltrarsi nei campi coltivati a mandorli ed oliveti, costellati di trulli suggestivi (Un bel trullo è sorto recentemente a pochi metri di distanza dal “dolmen”. Esso costituisce nel luogo, come in altre contrade della regione Appula, la chiara testimonianza della continuità di una particolare tecnica costruttiva che affonda le sue radici nella protostorica). La “specchia”, prima che fosse sfruttata per detti deprecabili lavori, si presentava nella zona come un ponticello a pianta sub-circolare di m 35 circa di diametro e oltre m 4 di altezza sul piano di campagna attuale e costituito di terriccio e pietrame calcareo amorfo, al cui accumulo dovette anche contribuire da lunghissimo tempo l’opera di “svecchiatura” dei terreni circostanti, secondo una pratica agricola tipicamente pugliese . Al disotto di questa specchia si eleva il vero “tumulo” di terra nerastra e piccole pietre, tenute insieme dal fitto intrico delle radici, tumulo che, nonostante la quasi completa rimozione abusiva dei materiali che lo componevano, è risultato a pianta circolare di m 30 di diametro e contenuto da uno zoccolo costruito a rozze lastre e blocchi calcarei di medie dimensioni (tutte le parti strutturali del monumento sono in calcare cretaceo a sfaldatura nastriforme, proveniente dai banchi secondari del luogo. Cfr. F. Sacco, I G Puglia - Schema geologico, 1911, p. 533 ss.), allineati in assise sovrapposte opportunamente inzeppate di pietre più piccole. Di questa crepidine, che doveva raggiungere in origine forse l’altezza di m 1,30 circa, si è potuto salvare un breve tratto di m. 3,80 di lunghezza e m. 0,80 di altezza. Esso ha lo spessore di poco più di m. 0,50 e da un saggio praticato lungo la sua faccia interna mostra chiaramente che ogni blocco o falda che lo compone si incunea nella massa pietrosa della parte superstite del tumulo. Questo misurava alla sommità circa m. 4 di altezza: fatto rilevato all’atto del nostro primo sopralluogo e prima che si rendesse necessaria per la statica del monumento la rimozione parziale della congerie di pietre e terra che opprimevano le sue strutture sottostanti. Al di sotto del tumulo, una grande costruzione a piccole lastre e blocchetti sovrapposti ed uniti a secco in bellissima opera muraria nel bianco calcare cretaceo locale raggiunge ora, nel lato ovest del monumento, là dove non è stata manomessa, l’altezza massima superstite di circa m. 2. Essa destinata alla completa distruzione e fortunatamente salvata per poco più della metà longitudinale della sua mole, aveva pianta pressoché ellittica di m. 21,20 di lunghezza e m. 7,50 di larghezza massima, con l’estremità sud a fronte rettilinea e l’andamento della cortina laterale a bastioni, cioè ad aggetti ricurvi e rientranze per rendere più solida e statica la sua struttura. Questo imponente apparecchio di pietre, spesso tagliate e scelte con una certa cura e messe in opera con una non comune perizia, inglobava in senso longitudinale e con perfetto orientamento sud-nord il monumento funerario vero e proprio, costituito di un vano a pianta pressoché circolare e di una “galleria” a struttura domenica.
Il primo elemento è un ambiente cilindroide ricavato nell’anticorpo a squadro dell’opera litica che ammorsa la costruzione interna. Ed è appunto la presenza di questo vano a pianta circolare con le sue esigenze d’ordine statico che richiede qui un avancorpo a fronte rettilinea, che peraltro si accorda con una ideale funzionalità di questo estremo sud del monumento, dove si presume dovesse esistere l’accesso alla sepoltura.
La struttura dell’ambiente si adegua a quella generale dell’insieme, rivelandosi accurata, come nel parametro esterno, per ciò che riguarda la scelta e l’impiego dei blocchetti e delle lastrine, gli uni e le altre legati insieme in una compatta opera a secco. Le pareti sono tutte a gobbe e rientranze anche a causa della pressione esercitata dalle radici di un carrubo secolare ch’era sorto nel tumulo soprastante proprio alle spalle della parte ora superstite del vano e che aveva danneggiato la sua struttura interna, rendendosi pertanto necessario un pronto rinforzo in cemento, facilmente camuffabile con pietre. Il profilo delle stesse pareti mostra che esse tendono con dolce linea curva ad allargarsi dal basso verso l’alto, sì che il diametro massimo del cerchio di base, tutt’altro che regolare e piuttosto ellissoidale, misura m. 3 circa, mentre quello del cerchio superiore è di oltre m. 3,50. Il vano inoltre, a giudicare da quanto ci rimane, seguendo in alto la pendenza del tumulo in cui era inserito si presenta con una stroncatura obliqua, misurando sul lato sud m. 1,50 e sul alto nord m. 2,30 di altezza.

Tracce di una banchina in pietrame, di struttura analoga a quella delle pareti, è parso di rilevare lungo la base dell’ambiente (La banchina naturale è stata provvisoriamente costruita a scopo pratico di rinforzo della base del muro superstite del vano. Per l’uso dei “sedili” nei monumenti magalitici mediterranei cfr. le esedre dei templi maltesi – EVANS, figg. 13, 17 – e quelle sarde dell e” tombe dei giganti” – LILLIU, fig. 70-).
Questo, che in un primo tempo non rinunciammo alla idea suggestiva di considerare un esempio pugliese di tholos di tipo minoicomiceneo, ad un esame più approfondito del monumento nulla ha rivelato che facesse presumere l’esistenza di una cupola o pseudo-cupola (S.Sabina, p. 129; LoPorto, Origini e sviluppo della civiltà del bronzo nella regione apulo-materana, in “Atti X Riun. Scient. Dell’Istit. Ital. di Preist. e Protost.”, 1966, p. 171. Cfr. nota 49). A parte la forma, quasi un tronco di cono rovescio, cioè – come si è detto – con le pareti tendenti ad allargarsi verso l’alto, piuttosto che restringersi, manca infatti ad esso ogni traccia di intradosso o inizio di volta, cioè la presenza di una o più lastre appartenenti a filari aggettanti; sicchè, a meno che la sua copertura non fosse stata a struttura lignea (per l’impiego del legno nelle camere funerarie dei tumuli armoricani cfr. GIOT, p. 128 ss.), fatto piuttosto improbabile, si deve ritenere che l’ambiente in questione fosse in origine a cielo aperto, cioè pressappoco come si presenta attualmente.

Un portello, aperto sulla fiancata nord di questa che possiamo chiamare “anticella”, immette nella galleria o camera funeraria. Esso è a m. 0,80 di altezza dal piano pavimentale dell’anticella e misura in alto ed in basso rispettivamente m. 0,80 e m. 0,90 di larghezza e m. 0,60 di altezza, essendo risparmiato nel muro di sbarramento dell’accesso alla galleria, che, spesso alla base m. 0,70 e alla soglia dello stesso portello m. 0,40 mentre sul lato est si incorpora con le strutture d’innesto dell’anticella alla galleria, sul lato ovest va a giustapporsi alla spalletta del muro dove è l’inizio d’opera del vano a pianta circolare. Tale spalletta, corrispondente quindi in parte allo stipite ovest del portello, è in allineamento con l’estremità orientale della crepide superstite del tumulo e con quella parte terminale dell’opera muraria di contenimento dell’anticella di m. 1,00 di spessore alla base, che ha tutta l’aria di essere stata a vista, e dove un saggio di scavo in profondità a ridosso di essa ha rivelato una interruzione alle fondazioni dell’ambiente. Onde appare probabile, nonostante la rovina in cui ci è stato restituito il monumento, che fosse qui l’ingresso all’anticella, collegato forse a mezzo di un dromos con un varco aperto a sud nello zoccolo del tumulo. L’anticella, di cui gran parte della metà orientale si è potuta rilevare sulla base delle fondazioni rimaste fortunatamente in situ, lega strutturalmente e secondo un piano unitario prestabilito alla cosiddetta galleria, che altro non è che una cella funeraria a pianta pressochè rettangolare oltremodo allungata. Questa cella, in origine lunga ben m. 17, a causa delle manomissioni subite anche nel passato, si presenta attualmente in due tronconi imperfettamente allineati e rispettivamente di m. 6,40 e m. 7,60 di lunghezza, con una soluzione di continuità di circa m. 2,50, corrispondente all’incirca alla parte centrale del monumento, là dove profanatori di tombe forse di età medioevale, praticando dall’alto una profonda buca nella massa pietrosa del tumulo, raggiunsero la sepoltura distruggendo questo tratto interno della galleria (Nel corso delle nostre esplorazioni sono stati scoperti un fiasco con decorazioni invetriata verdastra ed una lucerna di tipo medioevale. Quest’ultima servì forse ai depredatori per farsi luce nell’interno della sepoltura). Essa è per gran parte della sua lunghezza a struttura dolmenica, cioè a lastroni appena infissi verticalmente nel terreno e coperti da altri analoghi in senso orrizontale; ma alle due estremità questa costruzione a sistema “trilitico” si allunga in muratura a secco, a tecnica invero molto accurata. E mentre i grossi lastroni della parte media della galleria, e specie della copertura, sono impiegati tali e quali la stratigrafia del calcare secondario locale li ha restituiti o sono appena sbozzati, le lastre, spesso anche di notevoli dimensioni, e i blocchetti usati nell’opera muraria tradiscono una lavorazione a ritaglio tutt’altro che rozza e affrettata. Questi sono legati a secco ad assise regolari sovrapposte e con gl’interstizi ripieni opportunamente di schegge scelte con precisione quasi musiva. Nel tratto più a sud della galleria, là dove essa s’innesta con l’anticella, quest’opera in muratura si svolge per la lunghezza di oltre m. 2 e l’altezza di circa m. 1,40 e i due paramenti interni, distanti alla base di m. 1 circa, si restringono sensibilmente verso l’alto dove distano m. 0,85. All’esterno, le lastre che costituiscono questi muri regolari aggettano irregolarmente per inserirsi nel rifascio in pietrame che avvolge la sepoltura. Una nicchia di m. 0,50 di larghezza, m. 0,40 di profondità e m. 0,50 di altezza sembrerebbe aprirsi nella parete ovest di questo tratto meridionale della cella.

I due muri si congiungono con due lastroni disposti verticalmente nel senso della larghezza, prolungandosi in basso nei vuoti determinati dalla irregolarità degli stessi. Il lastrone del lato ovest misura m. 1,80 di lunghezza, m. 1,40 di altezza e m. 0,12 di spessore; quello del lato est, ora parzialmente rotto, misura rispettivamente m. 1,40 x m. 1,60 x m. 0,12. Entrambi si uniscono ad altri due bei lastroni, di cui quello ovest lesionato e lungo m. 2,40, alto m. 1,40 e spesso m. 0,12; mentre quello est misura m. 2,20 x m. 2,50 x m 0,12. Le lacune fra i lastroni giustapposti sono inzeppate con piccole pietre.

Nell’intervallo che segue a questo primo troncone della galleria c’è posto sufficiente per due lastroni di circa m. 2,50 di lunghezza. Ad essi si univano quelli dell’altro troncone, il cui allineamento devia rispetto al primo di circa 5°. I primi due lastroni misurano m. 2,30 x m. 1,20 x m. 0,12 e m. 1,80 x m.1,40 x m. 0,15, a cui seguono altri due di m. 2,10 x m. 1,20 x m. 0,15 e m. 1,60 x m.1,30 x m. 0,13. Fra i lastroni giustapposti è la consueta inzeppatura di pietre minute. I due lastroni del lato ovest, per quanto il taglio sembri coincidere, appartengono a falde diverse. I due muri che completano all’estremità nord la galleria sono di tecnica identica a quella dell’estremità sud. Essi misurano circa m. 3 di lunghezza e m. 1,40 di altezza, insinuandosi nelle lacune lasciate dagli ultimi due lastroni e appoggiandosi alle spallette del muro di controllo dell’opera litica che ingloba la tomba; inoltre, distando in basso, all’estremo nord, m. 0,85 ed in alto m. 0,75, rivelano un graduale sensibile restringimento della cella verso questa estremità, che doveva in origine essere chiusa da un muretto di circa m. 0,60 alla base, il quale pertanto si inseriva fra le stesse due spallette. Allo stato attuale di conservazione del monumento, il piano della galleria si presenta per gran parte pressoché al livello del piano di posa dei lastroni ortostatici, cioè senza alcun rivestimento in pietra del fondo terroso. Solo nel secondo troncone, nella parte più interna della cella, e per oltre m. 3 di lunghezza, il piano di deposizione si alza di oltre m. 0,50 su di un colmaticcio di pietrame amorfo rivestito di lastre di m. 0,10 di spessore, di cui una reca un foro che appare naturale (Cfr. GERVASIO, p. 9 ss.). Segue uno scomparto di m. 1,60 di lunghezza, rialzato sul piano della galleria di circa m. 0,40 e costituito di un altro riempimento di pietre su cui si adagia un lastrone di m. 1,50 di lunghezza, m. 0,80 di larghezza e m. 0,10 di spessore, inserito fra due lastre verticali di circa m. 0,80 di altezza, m. 0,85 di larghezza e m. 0,10 di spessore. Fu in questa porzione distinta della cella che trovammo – come vedremo – i resti scheletrici oltremodo sconvolti di numerosi individui insieme agli avanzi della suppellettile funeraria.

Rozzi lastroni, spesso di notevoli dimensioni, fanno da copertura alla galleria. Essi non poggiano direttamente sugli ortostati, sensibilmente inclinati verso l’interno, ma su tutta una serie di lastre intermedie regolarmente allineate nell’interno ed aggettanti all’esterno per inserirsi nel pietrame che cinge la cella . Il primo lastrone, quello che fa anche da architrave del portello, è ora lesionato e mutilo dalla parte anteriore. Esso è lungo m. 1,60, largo m. 1,50 e spesso m. 0,15 e poggia direttamente sui muri del tratto meridionale della cella, coprendo in parte la nicchia. Segue un altro lastrone, lungo oltre m. 2, largo m. 0,85 e spesso m. 0,15, il quale si inserisce più profondamente verso il lato ovest nella struttura litica, forse per la funzione ch’esso ha di fare parzialmente da copertura alla nicchia. Ad una frattura trasversale del lastrone, certo verificatasi durante la sua messa in opera, fu posto rimedio adagiandovi sopra un lastrone di oltre m. 1,70 di lunghezza, m. 0,85 di larghezza e m. 0,14 di spessore, che posa in parte sul lastrone successivo. Questo per la sua forma irregolare, per la sua mole, misurando oltre m. 2 di lunghezza, m. 1,45 di larghezza e m. 0,18 di spessore, e per il fatto che grava sui lastroni ortostatici, seppure qui a mezzo di interposte lastre-pulvino, ha carattere decisamente dolmenico. Così pure il lastrone che segue, gravemente danneggiato sulla sua fronte est e lungo m. 2,55, largo oltre m. 2,20 e spesso m. 0,20 circa. Un grosso lastrone, lungo circa m. 2, doveva coprire la parte centrale, ora lacunosa, della galleria, affiancandosi al rozzo lastrone successivo di m. 2,50 di lunghezza, m. 1,55 di larghezza e m. 0,15 di spessore, che con mirabile effetto megalitico si espande sui robusti pulvini che sormontano gli ortostati. Due frammenti di un lastrone, che in origine doveva misurare m. 1,60 di lunghezza, oltre m. 1,50 di larghezza e m. 0,19 di spessore, restano della copertura di quel settore distinto della cella su cui si è accanita l’azione distruttiva dei violatori di tombe. Sui muri della parte terminale della galleria poggia un lastrone irregolare di oltre m. 1,70 di lunghezza, m. 1,20 di larghezza e m. 0,15 di spessore, il quale s’incastra con il suo lato est fortemente aggettante nella struttura litica che rinserra la cella. Ad esso faceva certamente seguito un lastrone rinvenuto ai piedi del parametro esterno, sul suo lato nord, dov’era scivolato dopo le manomissioni subite dalla sepoltura, e che per essere lungo m. 1,80, largo m. 0,73 e spesso m. 0,13, mentre si accorda con il restringimento della cella in questa parte più interna di essa, si inserisce perfettamente nello spazio che intercorre fra il penultimo lastrone della copertura e le spallette del muro esterno, confermando che fra queste ed in allineamento con esse doveva interporsi una muratura che chiudeva questa estremità settentrionale della galleria, sbarrandone l’accesso da questo lato.

Penetrando nella galleria ed esaminando attentamente la copertura dall’interno, non può sfuggire che i punti d’incontro delle lastre sono accuratamente inzeppati con schegge e pietruzze cementate con argilla giallastra, su cui è possibile scorgere l’impronta lasciata dalla stecca. Tale ripiego, adottato per preservare la cella dalla infiltrazioni di umidità, è la conseguenza estrema di un sistema ingegnoso di drenaggio esperito sulla copertura della cella. Per tutta la sua lunghezza, infatti, al disopra dei lastroni orizzontali, è un letto di scaglie spesso sull’asse principale circa m. 0,20 e tendente ad assottigliarsi lateralmente. Su questo vespaio, per favorire il displuvio dell’acqua piovana, si espande a centina uno strato di argilla, in cui è facile rilevare le tracce di paglia e di foglie, che ha lo spessore di circa m. 0,15 e s’interrompe poco sotto i fianchi della copertura. Questa tecnica doveva risultare particolarmente efficace, dato che i sali calcarei determinati dall’umidità non appaiono intaccare il vespaio e quindi la copertura sottostante, con la conseguenza che la galleria rimaneva assolutamente asciutta, nonostante l’assorbimento di acqua piovana provocata dall’ingente massa terrosa e litica del tumulo sovrastante (una tecnica analoga si riscontra in alcuni tumuli della Bretagna – GIOT, p. 136 ss.; Ch. T. France, fig. 27 -. Cfr. inoltre i tumuli di Tumiac e Mont Saint Michel nel Morbihan – G. et A. De Mortillet, Musée préhistorique, 1881, tav. LIX: 574, 575- . Tali rivestimenti di argilla, intesi a proteggere dall’umidità le camere sepolcrali, compaiono a Micene nelle tombe del recinto B – G. E. Mylonas, Ancient Mycenae, 1957, p. 128 ss.; S. Marinatos M. Hirmer, Creta e Micene, 1960, p. 120 ss.- . Per l’Etruria vd. G. Caputo, La Montagnola di Qunto Fiorentino, l’orientalizzante e le tholoi dell’Arno, in “Boll. D’Arte” 1962, p. 116 e p. 149, nota 11).

Testi tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice Lo Porto (Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII - Volume76 - 1967)

Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA


Il Corredo

La completa esplorazione della sepoltura ha messo in luce - come si è detto – resti di deposizioni e di suppellettile funeraria soltanto in quel settore della galleria delimitato da due tramezzi litici, riservato forse ad un singolo gruppo familiare (tali divisori, presenti in Puglia nei “dolmens a galleria” di Albarosa e Corato (Gervasio, pp. 47, 62), corrispondono ai lastroni forati delle tombe megalitiche occidentali – LEISNER, tavv. 14 ss.; Meg. Build p. 39 ss.; Ch. T. France, p. 43 ss.). Allo stato delle nostre scoperte, tuttavia, non possiamo affermare se sia stata la particolare voluta conformazione di questa sezione della cella a conservarci, sebbene oltremodo sconvolte, le testimonianze di una deposizione collettiva o se essa sia stata l’unica trovata dai depredatori penetrati nella tomba attraverso il varco creato al centro della galleria. Certo che l’assenza di resti ossei umani e di avanzi del corredo in tutta la restante parte della cella, peraltro verso mezzogiorno assolutamente priva di un piano pavimentale in pietra (a meno che questa parte del pavimento della cella non fosse stata in legno - cfr. GIOT, p. 135 ss. -. Lastre pavimentali, evidentemente destinate alle deposizioni, furono notate nei “dolmen” pugliesi di Albarosa e Leucapside – GERVASIO, pp. 53, 72 – ed in quelli francesi – CARTAILHAC, La France préhistorique, 1896, p. 204 ss.; GIOT, p.114 ss-), che come nella parte settentrionale fosse destinata ad accogliere le deposizioni, farebbe pensare che queste, iniziate nella parte nord più interna della cella, trovata priva della copertura e quindi manomessa, e continuate nello scomparto successivo, l’una e l’altro appositamente costruiti con due piani gradualmente rialzati su quello principale della galleria, non siano state ultimate, per motivi che ci sfuggono, nel corridoio a piano terra della sepoltura. Alcuni rari reperti archeologici, raccolti – come vedremo – nel luogo del “dolmen” e di età di poco più recente di quella riferibile alle deposizioni accertate, non escluderebbero però del tutto la possibilità che queste fossero ulteriormente continuate nella cella e disperse con il loro corredo dai violatori della tomba. Non ci resta quindi che analizzare il materiale raccolto nella cella e completare il quadro culturale e cronologico da esso offerto con quanto è venuto in luce nel saggio di scavo dell’anticella e con quei pochi avanzi vascolari rinvenuti nell’area dello scavo. Sul lastrone che faceva da fondo allo scomparto della cella i resti ossei umani commisti a terriccio nerastro erano numerosi, in frantumi ed in stato di completo disordine. Essi appartengono a diversi individui, in origine certamente inumati col rito del rannicchiamento. Notevole la presenza anche di ossa combuste pertinenti a individui in numero imprecisabile. Insieme fu raccolto qualche osso di animale carbonizzato (Cfr. in Appendice l’esame del materiale osteologico, eseguito dal prof. Luigi Cardini dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, a roma. La combustione, anche parziale, dei cadaveri, si riscontra nelle tombe minoiche – V.T.M., p. 129 ss.; LEVI, p. 7 ss.- ed in alcune sepolture a tumulo occidentali – GIOT,p. 114 ss.; J. ARNAL, Les dolmes en pierres séches en Languedoc, in “Riv. St. Lig.”, XIX, 1953, p. 32-. Ivi non infrequente è anche la presenza di ossa animali – DECHELETTE, p. 404; GIOT, p. 114-, fatto constatato in puglia nel “dolmen2 di Bisceglie - GERVASIO, p.36 -. Per gli animali sacrificati nelle tombe cipriote vd. P. DIKAIOS, A Guide to the Cyprus Museum, 1947, pp.13, 15 ss.).

Fra le congerie caotica di tali ossami figurano non pochi frammenti di ceramica d’impasto compatto bruno o nerastro, non ancora decisamente buccheroide e a superficie per lo più levigata alla stecca o al brunitoio nei prodotti più fini. Si tratta in gran parte di tazze di piccole dimensioni, fra cui predominano le capeduncole carenate fornite di un particolare tipo di ansa che ci porta ad una fase ancora iniziale della civiltà del bronzo in Puglia.

Fra i vasi di cui è stato più agevole il restauro, una capeduncola di m. 0,10 di diametro alla bocca, m. 0,03 di altezza (con l’ansa m. 0,10), d’impasto nerastro a superficie liscia con discreta lucentezza, a pareti quasi completamente erette e lievemente inclinate verso l’esterno, l’orlo interamente arrotondato, il fondo spesso e convesso, è fornita di ansa ad ascia piatta, leggermente incurvata all’infuori e con foro tondo per la sospensione. Questa forma di ansa trova i più stretti confronti negli esemplari dai livelli proto-appenninici di Porto Perone (Porto Perone, p. 317, fig. 35: 15) e Scoglio del Tonno (G. SAFLUND, Punta del Tonno, in “Dragma Martino P. Nilsson”, 1973, fig. 22), in quelli raccolti nella tomba di S. Vito dei Normanni (S. Vito, p. 117, fig. 4: 1, 2; tav. I: 3, 4), in alcune stazioni e necropoli del Materano (Cfr. i materiali inediti da Grotta “La Monaca” e Santa Candida nel Museo Nazionale “D. Ridola” di Matera, Vd. Inoltre il corredo della tomba a grotticella di contrada S. Francesco nel Materano – U. RELLINI, L’età eneolitica ed enea nel Materano, in “Atti e Memorie Soc. Magna Grecia”, p. 1929, p. 139, fig. 13) e, risalendo la Penisola, a La Starza (D. H. TRUMP, Scavi a La Starza, Ariano Irpino, in “Bull. Paletn. Ital.”, LXIX-LXX, 1960-61, p. 228; Id., in “Pap. Br. Sch. Rom.”, XXXI, 1963, figg. 16, 17) e Conelle (R. PERONI, Per una definizione dell’aspetto culturale “subappenninico” come fase cronologica a sé stante, in “Memorie Accad. Lincei”, Serie VIII, Vol. IX, 1959, p.97, n. 111); mentre morfologicamente la tazza si allinea con gli analoghi vasi di Pertosa (P. CARUCCI, La Grotta preistorica della Pertosa, 1906, tavv. XXI-XXII; PUGLISI, p. 40, fig. 16).

Ad un’altra capeduncola frammentaria di m. 0,10 di diametro e m. 0,05 di altezza, d’impasto simile a quello del vaso precedente, a corpo fortemente carenato, orlo espanso, spigolo sentito sotto la gola e fondo umbilicato, appartiene probabilmente un frammento di ansa a nastro asciforme strozzato ai margini laterali, riscontrabile a Porto Perone (Porto Perone, fig. 57: 3, 4) e nella stazione protostorica di bari (GERVASIO, figg. 75, 76) in livelli decisamente proto-appenninici. Di un gruppo di capeduncole analoghe, più o meno frammentarie, manca purtroppo la parte terminale dell’ansa che si presume fosse ad ascia, la quale, come negli esemplari coevi dei livelli inferiori di Porto Perone (Porto Perone, p. 347 ss.), di Bari (GERVASIO, p. 128 ss.) e della tomba di S. Vito (S. Vito, p. 114 ss.), si è spesso irrobustita sul dorso e alla radice da un risalto verticale a costola.

Facilmente restaurata è stata una bella tazza (diam. M. 0,11; alt. M. 0,045) d’impasto bruno cupo e a superficie levigata, forma a calotta sferica con gola sotto l’orlo e spigolo vivo sottostante, fornita di piccola ansa a nastro anulare (Cfr. Porto Perone. Fig. 34: 7; GERVASIO, figg. 6, 10). Ad una tazza analoga inoltre appartiene un’ansa ad anello sormontato da un tubercolo, ora caduto (Cfr. Porto Perone, p. 317, nota 1). Infine, fra i frammenti recuperati è possibile riconoscere l’avanzo di una brocca di forma tronco-conica rovescia, fornita di ansa a nastro sopraelevato sull’orlo, come un esemplare integro della stazione di Bari (GERVASIO, fig.80). Tutti i prodotti vascolari ci riportano a quella fase arcaica dell’età del bronzo in Puglia, che abbiamo denominato altrove “proto-appenninico B” (Porto Perone, p.367 ss.; S. Vito, p. 128 ss.).

Insieme ad altri frammenti di ceramica d’impasto, raccolti durante i lavori di smantellamento del “dolmen” e recuperati dall’arch. Milillo, figura una grande ansa ad ascia ricurva e marginata con foro centrale, pertinente ad una capeduncola di notevoli dimensioni e piuttosto comune fra i materiali di Crispiano (Q. QUAGLIATI, Deposito sepolcrale con vasi preistorici in Crispiano presso Taranto, in “Mon. Ant. Lincei”, XXVI, 1920-21, figg. 2, 3, 8, 17), Bari (GERVASIO, fig. 75), Pulo di Molfetta (M. MAYER, Le stazioni preistoriche di Molfetta, 1904, fig. 74), S. Vito dei Normanni (S. Vito, fig. 7: 2), Scoglio del Tonno (numerosi frammenti inediti nel Museo Nazionale di taranto) e Porto Perone (Porto Perone, figg. 34: 17; 57: 10), dove compare fra i prodotti riferibili ad una fase piuttosto avanzata del nostro proto-appenninico B.

Questi frammenti potrebbero – come si è detto – appartenere alle più tarde deposizioni nella cella, andate forse disperse. Così pure un coccetto, da me raccolto nel terreno dello scavo, di argilla figulina color giallo rosato sia nell’interno che all’esterno, di cm. 2,7 di altezza ed altrettanti di larghezza, recante sull’orlo interno una fascetta color bruno lucente e su quello esterno tracce labilissime di un motivo decorativo che il disegnatore D’Amicis ha reso. Tale frammentino sembra appartenere ad una tazza micenea I-II di forma 204 (M. P., p. 53, fig. 15: 204), recante il motivo 48 (quirk) del Farumark (Idb., p. 359).
Un’ampio saggio di scavo nell’interno dell’anticella ha messo in evidenza tutto un ammasso di pietre calcificate, di carboni e di ceneri attribuibili al più tardo impiego dell’ambiente, forse in età medioevale o moderna, come fornace per calce, attestato peraltro dai segni appariscenti di una prolungata esposizione al fuoco delle pietre che compongono il vano. Successivamente si è riscontrata la seguente stratigrafia.
1. Strato a: di argilla sabbiosa di circa m. 0,15 di spessore, costituente il rivestimento pavimentale dell’anticella ed evidentemente concotto a causa della fornace soprastante che ha distrutto eventuali tracce di riti funebri, come, sacrifici di animali e fors’anche cremazione di cadaveri, entrambi attestati dai rinvenimenti nella cella (Vd. nota 15).

2. Strato b: di pietrame amorfo di m. 0,35 circa di spessore, formante una sorta di sottofondo a vespaio del pavimento dell’anticella (una massicciata analoga costituiva il pavimento dei “dolmen” di Albarosa – GERVASIO, p. 53-). Esso inglobava resti scheletrici umani e frammenti di vasi d’impasto d’età enea, forse pertinenti a deposizioni precedenti l’erezione del “dolmen”. I vasi sono in gran parte capeduncole carenate (fig. 28: 1-3, 5, 6), purtroppo mutile delle anse, ma tecnicamente analoghe a quelle raccolte nella cella. Un frammentino dell’orlo ribattuto di un vaso (fig. 28: 4) richiama un esemplare dal dolmen di Corato (GERVASIO, fig. 25). Un altro appartiene a supporto “a clessidra”, presente a Scoglio del Tonno (PUGLISI, tav. 19 g.) e nei livelli proto-appenninici di Porto Perone (Porto Perone, fig. 34: 9).

3. Strato c: di terriccio compatto nerastro di circa m. 0,20 di spessore, ricco di frustuli di carbone e cenere. Insieme a qualche osso di bruto è stata raccolta una dozzina di frammenti di ceramica neolitica, esemplificata dall’orlo di vaso di rozzo impasto di piatto cordone applicato, da un frammento di argilla più fine giallastra tendente al grigiastro e ornato di impressioni cardiali, da un altro decisamente figulino e color rosa intenso con tracce di ingubbiatura più chiara e di banda rossa non marginata: tutti prodotti reperibili, per citare una delle stazioni preistoriche più prossime, nell’insediamento neolitico di Molfetta (MAYER, op. cit., passim; ID, Molfetta und matera, 1924, p. 70 ss.). Una scheggia di pietra calcarea sembra appartenere ad una lama a sezione triangolare. Questo strato attesta dunque l’esistenza di un precedente insediamento nel luogo della tomba: fatto constatato nel dolmen di Albarosa (GERVASIO, p. 47 ss.). 4. Strato d: di terra color tabacco carico, di m. 0,20 di spessore, sterile e costituente il paleosuolo adagiato sul banco di roccia calcarea.

Testi tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice Lo Porto (Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII - Volume76 -1967)

Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA


Considerazioni

Quando nel 1961, nel corso degli scavi, diedi una notizia affrettata della scoperta, ancora sotto la suggestione diretta di quelle prime impressioni, che in ultima analisi si rivelano forse le più attendibili, non ebbi alcuna esitazione di denunciare il “dolmen” di Giovinazzo come un monumento funerario costituito di una lunga camera per le deposizioni e di una anticella a pianta circolare ( GERVASIO, p. 47 ss.). Più tardi, al lume di una indagine erudita non ancora approfondita però sui dati di scavo e forse sviata da troppo insistente richiamo agli innegabili apporti culturali, di cui è permeato il formarsi della civiltà protostoriche del Mediterraneo occidentale, ritenni di poter affermare che “nel grandioso dolmen di Giovinazzo, come nella tomba di Romeral ad Antequera nella penisola iberica, un ambiente circolare architettonico affine alla tholos micenea si innesta, al disotto di un enorme “specchia” delimitata da un cerchio di pietre, ad una costruzione rettilinea in grossi lastroni” (LO PORTO, in “Riv. Sc. Preist, XVI, 1961, p.270 qui considerato di età subappenninica. Cenni sulla sepoltura trovasi in TRUMP, Central and Southern Italy Before Rome, 1966, p. 146 e PERONI, Archeologia della Puglia preistorica, 1967, p. 106). Non poteva infatti sfuggirmi quanto affine all’architettura delle tombe micenee fossero e la pianta e l’alzato e le relative parti strutturali della sepoltura. Basta del resto dare una sommaria scorsa ai disegni e alle riproduzioni fotografiche del monumento perché risalti imperioso il binomio dromos – tholos, con l’aggiunta del tumulo di spiccata tradizione egea (Cfr. S. Sabina, p. 128 (ivi bibl.). Sulla diffusione in Occidente della tomba a tumulo vd. G. DANIEL - J. ARNAL. Les monuments megalithiques et la forme des tumuli en France et en Angleterre, in Bull. Soc. Prehist. Franc. 1962; Meg. Build., passium; A. ARRIBAS, Megalitismo peninsular - I Simposium de Prehistoria Iberica, 1959; PUGLISI, p. 43).

Sembra a tutta prima che la galleria del nostro dolmen altro non sia che il lungo corridoio di accesso alla cella a pianta circolare, la cui copertura non poteva risolversi che in una falsa volta col sistema dell'aggetto, quale doveva essere nelle più antiche tombe a tholos di Micene ( A. J. B. WACE, in "Br. Sc. Ath.", XXV, 1921-23, p.287 ss.). Con queste infatti, e specie con le tombe di Epano Phournos (Ibd., 292, fig. 52, tav. XLIV b.) e di Egisto ( Ibd., p. 296, figg. 54 - 56, tav. XLVI, Vd, inoltre WICE, Mycenae, an Archaeolo gical History and Guide, 1949, p. 128 ss.), databili per la presenza di ceramica LH I a nonn più tardi del XVI secolo a.C., la tomba di Giovinazzo ha in comune almeno la tecnica di costruzione a secco in blocchetti e lastre a struttura pseudo-isodoma. Questa tecnica trova peraltro ancora più impressionante somiglianza in quella rivelata dalla cretese tomba a tholos di Kamilari (LEVI, p. 7 ss.), posteriore alle molte sepolture analoghe della Messarà (V.T.M., passim), ma risalente, secondo il Levi, agli inizi dell'età proto-palaziale di Phaestos e quindi databile al MM II b, cioè al 1800-1700 a.C., corrispondente alla cronologia offerta dalla suppellettile recuperata nel nostro dolmen.

C'è inoltre nello schema generale del monumento, e indipendentemente dalle funzioni assolte dai singoli elementi architettonici, una certa affinità con le cosiddette "tombe a corridoio" della Penisola Iberica, e specialmente con quelle più significative della fase più avanzata della cultura di Los Millares (fase II B = 1800-1600 a.C.) (LEISNER, p. 586 ss. Cfr. M. ALMAGRO, La primera fecha absoluta para la cultura de Los Millares a base del Carbonio 14, in "Ampurias", XXI, 1958; M. ALMAGRO - A. ARRIBAS, El poblado y la necropolis megaliticos de Los Millares, 1963), alla cui cronologia fa ancora riscontro quella assegnabile grosso modo alla tomba di Giovinazzo.

Come è noto, queste tombe iberiche, come quelle micenee, dispongono di un corridoio (dromos), spesso di lunghezza notevole, e di un ambiente a pianta per lo più circolare coperto da pseudo-cupola (tholos). La loro struttura si fonda sul sistema della parete a lastroni ortostatici architravati e, nella fase più evoluta, di quella con muro a secco ad assise sovrapposte. Il tumulo circolare contornato di pietre o di lastre è di rito in tali sepolture (LEISNER, passim, Vd. nota 50). Esse, oltre che nella Penisola Iberica, sono diffuse in Francia (DECHELETTE, p. 388 ss.; Ch. T. France, p. 45 ss.; GIOT, p. 42 ss. Vd. bibl. in F. BIANCOFIORE, Architettura megalitica, "Arte Antica e Moderna", 1964, p.16 ss.), Gran Bretagna (Ch. T. England, passim, Vd. inoltre bibl.in BIANCOFIORE, op. cit., p.18, nota 62.) e altre regioni dell'Europa nord-occidentale ( Per la Danimarca, Svezia e Germania sett. vd. BIANCOFIORE, op. cit., p. 21, nota 77 ivi bibl.), in cui fra il III e II millennio a.C. seguono una evoluzione locale ( Sulle opposte tesi, orientalista e occidentalista, circa l'origine dei monumenti megalitici iberici vd. J. MYRES, Cupola Tombs in the Aegean and Iberia, in "Antiquity", 1953, p. 3 ss.; S. PIGGOT, The Tholos Tombs in Iberia, in "Antiquity", 1953, p. 137 ss.; Meg Build., p. 73 ss.; ARRIBAS, Meg. pen., cit., passim.), solo in origine soggetta agli influssi immediati del mondo egeo, donde si introduce nel Mediterraneo occidentale, accanto al tipo di sepoltura ipogea collettiva (Cfr. le tombe a grotticella cicladiche e cipriote con quelle coeve della Marna (Ch. T. France, p. 46) e di Alapraia I, Palmella III e Carenque III nel Portogallo (Meg. Build., p. 29 ss), generalmente tradotta in forme megalitiche, il principio della pseudo-cupola, documentato nel III millennio a.C. dalle "corbelled tombs" protoegee di Krazi, Hagios Kosmas e Syros, così come dalle più antiche tholoi di Almeria e Algarve (G. CHILD. The Middle Bronze Age, in "Arch. de Prehist. Levant.", IV, 195), p. 17) ss.; M. S. F. HOOD, Tholos Tombs of the Aegean, in "Antiquity", 1960, p. 166 ss.).

Nonostante le affinità morfologiche che il dolmen di Giovinazzo presenta con le tombe a corridoio egee ed occidentali, appare difficile, per quanto si è detto sopra, poterlo inserire nella classe dei monumenti testé menzionati. Esso potrebbe piuttosto collegarsi con le cosiddette "tombe a galleria", diffusissime nell'Europa nord-occidentale (Ch. T. England, passim; Meg. Build., p. 41 ss.; Ch. T. France, p. 43 ss. Vd. bibl. BIANCOFIORE, op. cit., p. 14 ss.).

La tomba a galleria (fr. allée converte; ingl. gallery grave) è costituita di una lunga e stretta camera a pareti ortostatiche, chiusa ad una estremità e con copertura di grossi lastroni. Il tracciato della galleria non sempre è rettilineo (DE MORTILLET, op. cit., tav. LVIII), né vige una regola fissa per l'orientamento (DECHELETTE, p. 38); e, come nelle tombe a corridoio, lastroni forati a "portello" dividono in vari scomparti l'ambiente allungato, il quale è inglobato in un tumulo a pianta ellittica (longbarrow). Essendo inoltre una sepoltura collettiva, vi si ritrovano numerose ossa di inumati, mentre resti di cremati, per quanto rari, sono presenti (Ch. T. France, p. 45 ss.). Considerato come una variante della tomba a corridoio, e quindi ad essa contemporaneo, questo genere di sepoltura ha il suo periodo di grande fioritura in Francia fra il 1800 e il 1600 a.C. (Meg. Build., p. 211 ss.; DANIEL, The Dual Nature of the Megalithic Colonization of Prehistoric Europe, in "Proc. Prehist. Soc.", 1941, p. 1 ss.).

Un richiamo diretto a tali monumenti funerari megalitici francesi, presenti anche in Spagna nelle province di Cordoba, Granada e Malaga (LEISNER, tavv. 35-57), costituiscono nelle Baleari la navetas di Minorca (Meg. Build., fig 14; J. MASCARO' PASARIUS, Els monuments megalitics a l'illa de Menorca, 1958, p. 23 ss.) e Maiorca (Ip., Tipologia de les monumentos megaliticos de Mallorca, 1952, p. 45 ss., Vd. bibl. in BIANCOFIORE, op. cit., p. 15, nota 50) e in Sardegna i "dolmen allungati" con cella divisa in due da un lastrone e coperti da cumulo terragno (galgal) con o senza recinzione litica (LILLIU, p. 87, fig. 17: 2), dai quali è lecito credere con il Lilliu si sia giunti, dopo un processo di evoluzione formale, ai primi esempi di "tombe dei giganti" con grandi fasciami murari oblunghi ad U e ancora privi di esedra frontale (Ibd., p. 168, fig. 31: 1,2, Recentemente la dott. Editta Castaldi ha scoperto in Gallura una interessante tomba costruita in due tempi: la prima fase consta in un'allée con fasciame di pietre anche sulla fronte, la seconda presenta l'esedra aggiunta. L'eventualità che nel "dolmen" di Giovinazzo l'anticella sia stata aggiunta in un secondo tempo è assolutamente da escludere). Senza dubbio l'estremo limite orientale della diffusione nel Mediterraneo occidentale della tomba a galleria è la Puglia perché tali sono senz'altro i "dolmen" di Albarosa, Corato e Bisceglie, in provincia di Bari, e quello di Leucaspide, presso Taranto (LILLIU, p. 90; BIANCOFIORE, op. cit., p. 15; TRUMP, op. cit., p. 145; PERONI, op. cit., p.84 ss).

Il "dolmen" di Albarosa (GERVASIO, p. 47 ss) è costituito di una galleria divisa in due da una lastra trasversale. Esso è inoltre incorporato in una specchia contornata da un muro a secco come a Giovinazzo, e sorge ugualmente nel sito di un precedente insediamento neolitico e fors'anche eneo iniziale. E' dubbio infatti se alcuni frammenti di anse a gomito, peculiari della facies di Cellino S. Marco (proto-appenninico A = 2000 - 1800 a.C.)( LO PORTO, La tomba di Cellino San Marco e l'inizio della civiltà del bronzo in Puglia, in "Bull. Paletn. Ital." LXXI - LXXII, 1962-63, p. 214 ss), facciano parte del corredo della tomba o del giacimento sottostante. Un'ansa ad ascia di foggia evoluta (GERVASIO, fig. 21) tipica delle capeduncole del proto-appenninico B avanzato, può essere appartenuta alla suppellettile funeraria del "dolmen", la cui dotazione pertanto si porrebbe fra il 1700 e il 1600 a.C.).

Altro "dolmen a galleria" è quello Frisari, presso Bisceglie (Ibd., p. 59 ss), e quello di Corato (Ibd., p. 62 ss), il quale per la sua suddivisione in più sezioni presenta qualche affinità con la tomba di Giovinazzo. Così quello più tardo di Bisceglie (Ibd., p. 5 ss), in origine cinto da fasciame murario a secco, nel cui corredo figura ceramica tipicamente meso-appenninica e quindi databile al 1600 - 1400 a.C. (Cfr. Porto Perone, p. 370 ss). Del pieno proto-appenninico B, per la presenza di un'ansa ad ascia nelle suppellettile funeraria, è l'analogo "dolmen" di Leucaspide (GERVASIO, p. 72 ss.) e pertanto risalente al 1800-1700 a.C.

Tutte queste tombe megalitiche pugliesi del genere "a galleria" (L'esempio più settentrionale e verisimilmente il "dolmen" Molinello sul Gargano (PUGLISI, Le culture dei capannicoli sul promontorio Gargano, in "Mem. Acc. Lincei", Serie VIII, Vol. II, 1948, p. 30 ss.) - come è noto - si distinguono architettonicamente dai dolmens semplici, soprattutto diffusi nel Leccese (GERVASIO, p. 69 ss.; G. PALUMBO, Inventario dei dolmen di Terra d'Otranto, in "Riv. Sc. Preist.", XI, 1956, p. 84 ss.; TRUMP, op. cit., p. 87 ss.; PERONI, op. cit., p. 106 ss.) e verisimilmente connessi con i "menhirs" o "pietrefitte" (GERVASIO, p. 336 ss.; G. PALUMBO, Inventario delle pietrefitte salentine, in "Riv. Sc. Preist.", X, 1955, p. 86 ss.; TRUMP, op. cit., p. 89 ss.; PERONI, op. cit., p. 106). Tali dolmens, allo stato attuale delle ricerche (Una serie di esplorazioni verrà presto effettuata dallo scrivente nei vari siti dei monumenti megalitici pugliesi), sfuggono per l'assenza dei corredi ad una precisa determinazione cronologica, nonostante siano stati collegati con quelli della Corsica (R. GROSJEAN, Rapports Corse-Sardaigne-Pouilles, in "Bull. Soc. Preist. Franc." LVII, 1960, p. 301 ss.), della Sardegna (LILLIU, p. 87 ss.; Ip., I Nuraghi, 1961, pp. 22, 42 ss.) e soprattutto quelli molto simili e geograficamente vicini di Malta (J. D. EVANS, The "dolmens" of Malta and the Origins of the Tarxien Cemetery Culture, in "Proc. Prehist. Soc.", 1965, p. 85 ss.) concomitanti con la cultura delle tombe a cremazione di Tarxien e quindi riferibili al 1800- 1700 a.C. (L. BERNABO' BREA, Malta and the Mediterraneam, 1960, p. 132 ss.).

La tomba di Giovinazzo, nonostante la sua particolare struttura, si collega col predetto gruppo dei "dolmens a galleria" di Terra di Bari, con cui presenta molti punti di contatto formali, cronologici e culturali. E se dobbiamo rinunciare all'idea, per tutte quelle considerazioni scaturite dalla illustrazione del monumento, di considerarlo affine ai sepulcros de cupola iberici di tradizione egea, ricollegandolo invece alle coeve gallery graves dell'Europa nord-occidentale, è certo che i costruttori della sepoltura, non ignorando e l'una e l'altra forma tombale, ma sotto l'impulso di tali esperienze di architettura mediterranea, adattarono a forme megalitiche ed in struttura muraria a secco con tumulo cinto da crepidine (Nella regione apulo-materana tombe a tumulo sono quelle di tipo "siculo" di Murgia Timone (G. PATRONI, Un villaggio siculo presso Matera nell'antica Apulia, in "Mon. Ant. Lincei" VIII, 1898, col, 417 ss.) e quelle "tardo-appenniniche" di S. Sabina, presso Brindisi (S. Sabina, p. 123 ss.); così come le "piccole specchie" salentine, con camera dolmenica e dromos (DRAGO, p. 190 ss.), che sono "sub-appenniniche" e "protovillanoviane", come le tombe scoperte recentemente dal collega prof. Rittatore Vonwiller a Ischia di Castro, nel Viterbese (Comunicazione dello stesso alla XII Riunione Scientifica in Sicilia dell'Ist. Ital. di Preist. e Prot., ottobre 1967), le quali, con quelle analoghe di Pian Sultano (PUGLISI, p. 52, ivi bibl.), ci portano direttamente alla tipologia delle tombe paleo-etrusche (vd. CAPUTO, op. cit., p. 138 ss.). Dell'VIII secolo a.C. sono le tombe singole a tumulo di Altamura (BIANCOFIORE, Struttura e materiali dei sepolcri a tumulo di Altamura (Bari), in "Rend. Acc. Napoli", 1964, p. 3 ss.) e di Murgecchia nel Materano (Scavi Lo Porto, 1967) la coeva tomba proto-appenninica a grotticella artificiale, costituita di cella e pozzetto cilindrico di accesso (Cfr. LO PORTO, La tomba di Cellino, cit., p. 214 ss. Anche la nicchia a lato della cella, frequentissima nelle sepolture megalittiche occidentali (LEISNER, tavv. 18-28 ss.; Meg. Build., fig. 8), così come a Cipro (E. GJERSTAD, in "Swed. Cypr. Exped.", I, 1934, figg. 49, 53) e in Sicilia (BERNABO' BREA, La Sicilia prima dei Greci, 1958, fig. 20), si ritrova nella coeva tomba a grotticella di S. Vito dei Normanni (S. Vito, fig. 1), traducendola in una camera funeraria allungata, come le allées couvertes dell'Occidente europeo, preceduta da anticella a pianta circolare (E' dubbio -come si è detto sopra - se l'accesso dell'anticella avvenisse dall'alto, a mezzo di un'apertura nel tumulo soprastante, o molto più probabilmente da un passaggio praticato nel muro dell'ambiente).

Naturalmente la costruzione di una tomba di siffatta mole, che gli avanzi del corredo tipicamente proto-appenninico B ci portano a datare al 1800-1700 a.C., con una continuità di seppellimenti forse fino al XVI secolo a.C., come sembrerebbe provarlo anche la presenza di ceramica micenea I-II (Per la ceramica MIc. I-II scoperta in Puglia vd. Porto Perone, p.333 ss.; BIANCOFIORE, Civiltà micenea nell'Italia meridionale, 1967, p. 37 ss. Vd. inoltre LO PORTO, Scavi a Punta delle Terrare (Brindisi), in "Ricerche e Studi - Museo Ribezzo di Brindisi", Quaderno n. 3, 1967, p. 106). Per le Eolie vd. L. BENABO' BREA - M. CAVALIER, Civiltà preistoriche delle isole Eolie e del territorio di Milazzo, in "Bull. Paletn. Ital." LXV, 1956, p. 52; W. TAYLOUR, Mycenean Pottery in Italy, 1958, p. 13 ss.; L. BENABO' BREA - M. CAVALIER, Ricerche paleontologiche nell'isola di Filicudi, in "Bull. Paletn. Ital." LXXV, p. 168 ss.), comporta lo sforpo comune di genti stabilmente insediate nella zona, non diversamente che nelle stazioni prossime e contemporanee del Pulo di Molfetta (M. MAYER, Le stazioni preistoriche di Molfetta, p. 4 ss.) e di Bari (GERVASIO, p. 106 ss.), non lungi dalla costa e quindi interessate da tutta una corrente di traffici marittimi col mondo egeo e, attraverso le isole, Sicilia, Malta, Sardegna, Corsica, con quello del Mediterraneo occidentale (All'origine di questo movimento commerciale anche col mondo occidentale attestato all'inizio dell'età dei metalli dalla diffusione del vaso iberico campaniforme, è l'approvvigionamento del rame e dello stagno. Cfr.. La tomba di Cellino, cit., p. 218 ss.; S. JUNGHANS - E. SANGMEISTER - M. SCHRODER, Metallanalysen kupferzeitlicher und frubronzezeitlicher Bodenfunde aus Europa, 1960; F. BIANCOFIORE, La metallurgia del rame nell'antica Europa ed il suo significato storico in "Emilia Preromana", 1964, p. 417 ss.): il che spiega il diffondersi e l'attecchire di particolari forme architettoniche, evidentemente favorite dalle condizioni geologiche ambientali.

Abbreviazioni Bibliografiche
  • Ch. T. England. - G.E. DANIEL, The Prehistoric Chamber Tombs of England and Wales, 1950.
  • Ch. T. France. - G.E. DANIEL, The Prehistoric Chamber Tombs of France, 1960.
  • DECHELETTE - J. DECHELETTE, Manuel d'archéologie préhistorique, 1908.
  • DRAGO - C. DRAGO, Specchie di Puglia, in "Bull. Paletn. Ital." LXIV, 1954 -58, p. 171 ss.
  • EVANS. - J.D. EVANS, Malta, 1959.
  • GERVASIO - M. GERVASIO, I dolmen e la civiltà del bronzo nelle Puglie, 1913.
  • GIOT. - P. R. GIOT, Brittany, 1960.
  • LEISNER. - G. u. V. LEISNER, Die Megalithgraber der Iberischen Halbinsel, 1943.
  • LEVI. - D. LEVI, La tomba a tholos di Kamilari presso Festòs, in "Ann. Sc. Ital. Atene", n.s. XXIII-XXIV, 1961-62 p. 7 ss.
  • LILLIU. - G. LILLIU, La civiltà dei Sardi, 1961.
  • Meg. Build. - G. E. DANIEL, The Megalith Builder of Western Europe, 1958
  • M. P. - A. FURUMARK, The Mycaenean Pottery, 1941.
  • Porto Perone - F. G. LO PORTO, Leporano (Taranto) - La stazione protostorica di Porto Perone, in "Not. Scavi", 1963, p. 280 ss.
  • PUGLISI - S. PUGLISI, La civiltà appenninica, 1959.
  • S. Sabina. - F. G. LO PORTO, Sepolcreto tardo - appenninico con ceramica micenea a S. Sabina presso Brindisi, in "Boll. d'arte", 1963, p. 123 ss.
  • S. Vito. - F. G. LO PORTO, La tomba di S. Vito dei Normanni e il "proto - appenninico B" in Puglia, in "Bull. Paletn. Ital.", LXXIII, 1964, p. 109 ss.
  • V. T. M. - S. XANTHOUDIDES, The Vaulted Tombs of Mesara, 1924.
  • Testi tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice Lo Porto
  • (Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII - Volume76 -1967)
  • Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA