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“Aprire il passato significa raccontarlo. Alla comunità scientifica sì, ma soprattutto alla comunità dei cittadini cui il lavoro degli archeologi e, più in generale, degli operatori dei beni culturali deve rivolgersi.”.
Fin da epoche
remote, e per via delle sue innumerevoli risorse, la Sardegna fu verosimilmente
un crocevia di beni e di ricchezze provenienti dai commerci e dalla
navigazione. Probabilmente culla della più antica marineria, l’isola riuscì,
come prima testimonianza di floridi commerci, a distribuire l’ossidiana estratta
sul Monte Arci e nell’Isola di Sant’Antioco[1]dalle coste del Golfo del
Leone sino alle coste della Puglia e poi fino in fondo alle foci del Danubio[2].
Grazie a studi accurati sono stati indagati i circa 300 punti di estrazione del
“vetro vulcanico” collocati sul Monte Arci e sono stati individuati diversi
tipi di ossidiana più o meno fragili probabilmente indicati per diversi usi.
Monte Arci
Naturalmente l’ossidiana è testimoniata anche
in altri contesti estranei alla Sardegna collocati nel Mediterraneo Occidentale
quali le Isole Pontine, Lipari e Pantelleria. Degna di riflessione è la
constatazione che in questi ultimi contesti lo sviluppo della vita - o di una
comunità in grado di estrarre e distribuire il materiale – si manifestò solamente
in epoca storica, ponendo il dubbio su chi realmente fosse lo sfruttatore delle
risorse. La distribuzione del materiale dei quattro principali giacimenti vede,
nell’ambito dei contesti di fruizione sparsi tra l’arco franco ligure, la
Corsica, l’Italia Centrale e l’Europa Danubiana, una spiccata preferenza per il
materiale Sardo nelle sue quattro varianti. Pare doveroso chiedersi, in virtù
dell’assenza di forme civili negli altri contesti produttivi, quale altro
gruppo umano distribuì il materiale dando preferenza a quello Sardo. Lo
scrivente, stimolato da altri studiosi quali ad esempio Mikkelj Tzoroddu, è
portato a ipotizzare che solo la marineria sarda fosse in grado, in epoca
preistorica, di distribuire da sola sia il proprio materiale che quello
estratto dai siti precedentemente citati fissando perciò un vero e proprio
controllo sul traffico di ossidiana[3].
La distribuzione del materiale, avvenuta in percentuali a favore del prodotto
sardo (almeno il 50% del prodotto rilevato in ciascun sito di distribuzione), è
riconducibile almeno al 12.200 + 400 BP ( Before Present – prima del
presente), periodo indicato dalle datazioni ottenute dall’ossidiana rinvenuta
nel Riparo Mochi (Egeo). Grazie a queste indelebili tracce nella storia è
possibile testimoniare la capacità dei sardi, tacciati di isolamento, di
muoversi al di fuori del contesto isolano.
L’elemento marino e la felice
posizione geografica della Sardegna, al centro del Mediterraneo Occidentale, hanno
costituito da sempre degli elementi di coesione anziché di isolamento. Basta
riflettere su esempi quali il fiorire della Cultura campaniforme in Sardegna
contemporaneamente a quella dell’Europa Centrale per capire quanto la Sardegna
preistorica fosse in contatto con l’Europa continentale. Si può ancora studiare
il successivo fenomeno dell’ipogeismo e ascoltare Giovanni Lilliu imputare l’origine
degli ipogei eneolitici francesi della conca di Parigi ad una matrice sarda di
cultura Abealzu – Filigosa[4],
per avere altre testimonianze relative agli spostamenti dei Sardi. In merito al
rapporto profondo e assodato tra i Sardi ed il Mediterraneo è possibile osservare
l’arrivo precoce della metallurgia in Sardegna, congettura sostenuta pienamente
dalle relative datazioni fatte da Tykot sulle lame di bronzo della necropoli di
Mesu ‘e Montes (Ossi – Tomba II), imputate attorno al 3200 a.C e la spatola di
Monte Baranta (Olmedo) del 2700 a.C.[5].
Grazie all’elemento marino le popolazioni nuragiche si rivelano esportatrici,
sotto molti punti di vista, di elementi quali ad esempio la cultura materiale legata
alla produzione del vino, oppure la cultura materiale legata alla produzione di
armi, oppure ancora delle tecniche relative all’edilizia. Tra le regioni che
condividono con la Sardegna del Bronzo Medio e del Bronzo Finale similitudini
nell’edilizia abitativa e in quella religiosa troviamo la Penisola Iberica, la Francia,
la Corsica e le Baleari, tutte regioni raggiungibili unicamente attraverso il
mezzo marino. Si possono inoltre riscontrare somiglianze marcate, in ambito
culturale, tra la Sardegna nuragica e svariati contesti umani oltre mare quali
l’Etruria, il basso Tirreno, la Sicilia, le regioni ioniche e Creta, sia per
quanto riguarda la ceramica della facies eoliana di Capo Graziano sia per la presenza in tutti questi territori di
brocche askoidi esclusivamente sarde[6].
A prova della familiarità con l’ambiente acquatico si possono inoltre citare le
ceramiche nuragiche testimoniate a Cadice, Huelva, Sevilla e sull’Atlantico
iberico a dimostrazione di una capacità commerciale di tutto rispetto[7].
La padronanza del mezzo acquatico permise ai Sardi di esportare l’attività
edilizia e gli stili esclusivamente indigeni sino al Mediterraneo Orientale. La
conferma di tale affermazione possiamo trovarla se analizziamo le capanne
circolari del Levantino:
Capograziano - Sicilia
strutture abitative e di vario genere caratterizzate nell’architettura[8][9]da elementi nostrani ravvisabili nell’inconfondibile paramento murario a
sacco tipico delle architetture sarde. La Grecia micenea richiese l’intervento
di mastri edili Sardi per edificare l’Unterburg di Tirinto come per la fonte
Perseia di Micene; le sepolture ipogeiche a cassone litico circondate da
circoli di pietre del diametro di 8 mt circa, create nella penisola greca [10],
richiamano fortemente i circoli tombali di Arzachena e di Goni.
Goni - Circolo tombale
In aggiunta
alle già numerose testimonianze si possono citare gli Hittiti come committenti di
una muraglia favolosa per le città di Hattusha e di Buyukkake, oppure di un
favoloso tunnel ad Alacha Huyuk in Anatolia[11],
tutte prove di un’edilizia sarda giunta molto lontano. Infine sembra doveroso
citare i contatti tenuti con l’antico Egitto grazie allo sfruttamento delle
reti commerciali. I traffici di merci e di uomini, avvenuti attraverso il
Mediterraneo, sono ora testimoniati nei dipinti raffiguranti l’aspetto dei
principi delle Isole del Cuore del Verde Grande “recanti doni” ai faraoni
Ashepsut e Tuthmosis III o verosimilmente commercianti con il regno Egizio. I caratteri
somatici e le armi raffigurate nei dipinti egizi ci dimostrano che i principi
delle Isole del Cuore del Verde Grande non sono Micenei, bensì appartengono al
gruppo etnico dei Sardi o definiremmo meglio degli Shardana[12],
citati persino nelle cronache a El Amarna tra il XIII e il XII secolo a.C.. Gli
Shardana si rivelano tra i protagonisti di quella lega definita “dei Popoli del
Mare” e delle vicende ad essa legate quali ad esempio l’invasione del
Mediterraneo Orientale. L’antropologia ci fornisce ora i dati che ci supportano
nell’elaborazione di chi fossero i Popoli del Mare ed in particolar modo su chi
fossero gli Shardana e la loro identità Sarda.
Ramses III contro i popoli del mare
Nonostante si conosca l’immagine riprodotta sui bassorilievi egizi, di
certo non ci è ancora dato conoscere quale fosse la pigmentazione dei Sardi
presenti in Egitto. Ad incoraggiarci in questa ricerca ritroviamo le analisi
fatte sui rinvenimenti indigeni, le quali ci mostrano che l’indice cranico
degli uomini Sardi di cultura Ozieri è accostabile alle popolazioni stanti
nell’Egitto predinastico e a Creta[13]. Dalle rappresentazioni dell’età
del Bronzo[14]
egizi e cretesi compaiono caratterizzati da un colorito abbronzato, che perciò ci
porta a considerare che la pigmentazione dei Sardi, stanti anche nel Levantino,
potesse essere più colorita rispetto a quella dei Sardi residenti nella
Sardegna, magari a tal punto da meritare l’appellativo di “Phoinikes”- uomini
rossi. Dalle raffigurazioni egizie sui dipinti delle tombe di Tebe del XV sec.
a.C[15]
emergono degli individui armati di spade a sezione triangolare con costolatura
mediana, la cui valutazione ci permette di allacciarci agevolmente alla
produzione metallica Sarda.
La produzione Sarda testimonia infatti che tali
armi hanno una matrice indigena e che solo grazie al rapporto uomo sardo - mare
questa produzione è potuta giungere oltre le sponde del Mediterraneo e portate
alla forgiatura di modelli come quelli individuabili nel Midì francese, nella
regione di El Argar, a Filitosa, Castaldu e Cauria in Corsica. Ancora si può
affermare che l’esportazione della metallurgia, avvenuta nel Bronzo Medio ad
opera di agenti nostrani, ci permette di individuare forme bronzee tipiche
esclusive sarde anche nella penisola Iberica, nella Locride, sull’isola di
Creta e nell’attuale Israele. In conclusione si può asserire che dal Bronzo Medio
alla fine dell’età del Ferro, i Sardi gestissero rapporti commerciali e tecnologici
navigando in lungo e in largo nel Mediterraneo, anziché stare isolati nel
proprio contesto geografico, entrando in contatto con diverse civiltà, scambiandone
i prodotti e cogliendone il Know – How o gli elementi che consideravano a
proprio vantaggio.
[1]M.
Cabriolu, La Preistoria a Sant’Antioco,Gruppo Ed. L’Espresso, 2008
[2]M.
Tzoroddu, Kircandesossardos – Sardegna,
ricerca dell’origine, Zoroddu
Editore, Fiumicino 2008, p. 58
[3]D.Binder,
J.Courtin, Un point sur la circolation de
l’obsidienne dans le domaine provencal, in “Gallia Prehistoire”, 36 (1994),
p.310 – 322
[4]G.Lilliu,
Aspetti e problemi dell’ipogeismo Mediterraneo,serie IX vol. X fasc. 2, in A.
Moravetti (a cura di) Sardegna e
Mediterraneo negli scritti di Giovanni Lilliu, Carlo Delfino Editore,
Sassari1998, p.2450
[5]R.H.Tykot,
Radiocarbon dating and absolute
chronology in Sardinia and Corsica, Skeates & Whitehouse, London 1994, p.115-145
[6]P.
Bartoloni, I Fenici e i Cartaginesi in
Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 2009, p.37
[7]Bartoloni,
I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna,
p.37
[8]L.
Bernabò Brea, Gli Eoli e l’inizio
dell’Età del Bronzo nelle Isole Eolie e nell’Italia meridionale: archeologia e
leggende, Arte Tipografica, Napoli 1985, pp.151-201
[9]G.
Ugas, L’Alba dei Nuraghi, Fabula, Cagliari
2005, p.199
[10]F.
Matz, Creta Micene Troia, Primato, Collana
Le grandi civiltà del passato, Roma 1958, p. 31
Il museo archeologico di Olbia, progettato dall’architetto G. Maciocco,
espone i principali reperti provenienti da Olbia e dal territorio
circostante. I materiali esposti consentono di ripercorrere la storia di Olbia a
partire dalla preistoria (età nuragica, dal XVII sec. a. C.) fino al
medioevo (XIV sec. d. C.), attraverso le fasi nuragica, fenicia, greca,
cartaginese, romana e medievale della città. Il museo espone inoltre tre
dei ventiquattro relitti di navi di età romana e medioevale rinvenuti
durante lo scavo per la costruzione del tunnel della S.S. 125. I
relitti, del tutto eccezionali in quanto normalmente il legno non si
conserva nel tempo, mostrano due eventi fondamentali della storia di
Olbia: la distruzione della città ad opera dei Vandali intorno al 450 d.
C., e la riapertura delle rotte commerciali grazie alla Repubblica
Marinara di Pisa nell’XI sec.
L'allestimento, ad opera dell'architetto G.Maciocco, R.D'Oriano e A.Huber, si basa sulla semplicità con pareti bianche libere da pannelli o schermi, vetrine trasparenti con l'esposizione dei reperti più significativi della città e "totem" con pannelli esplicativi e per la visione dei video che narrano la storia e le scoperte archeologiche della città.
Per quando riguarda la didattica dobbiamo assolutamente citare i due plastici, uno al piano terra che ricostruisce il vecchio porto romano e uno al primo piano, nella sala romana, che mostra l'urbanistica di Olbia. Qui possiamo vedere le riproduzioni dei templi gemelli, le mura che circondavano la città, l'acquedotto, le terme e l'acropoli. Due sezioni a grandezza reale di come doveva essere la stiva di una nave con il suo carico e una con le dotazioni di bordo e la bellissima statua di Ercole, situata al primo piano, divinità consacrata alla città di Olbia in epoca romana, ricostruzione possibile sulla base del ritrovamento di una testa di Ercole all'isola Bocca.
Visitiamo il Museo
- Ingresso: Sala circolare, a sinistra entrando, troviamo una sarcofago e un coperchio di un'altro sarcofago di epoca romana. Frontalmente troviamo il ricevimento e il personale del museo.
- Sala 1: Qui possiamo vedere due delle 11 navi scoperte durante gli scavi del tunnel situato sotto Via Principe Umberto, tre aste da timone e due alberi maestri con una lunghezza pari a 7-8 metri.
Questi reperti, di archeologia navale e navigazione antica, rendono il nostro museo unico nel suo genere in quanto forniscono solide basi di studio per chi si interessa della navigazione nell'antichità oltre a testimoniare l'attacco dei Vandali nel 450 d.C. e la distruzione del porto di Olbia.
- Sala 2: Vi sono due gigantografie del rinvenimento delle navi durante lo scavo del tunnel e due video che mostrano l'evolversi delle ancore e degli oggetti ritrovati nello scavo.
- Sala 3: Presenta un relitto di epoca medievale in parte poggiato su una struttura lignea che ci permette di capire meglio la forma originaria. Questo tipo di imbarcazione veniva usata per navigare nell'area del golfo interno e nelle coste limitrofe.
- Sala 4: Proiezione a 180° dell'attacco dei Vandali nel porto di Olbia
- Sala 5: Grande plastico con la ricostruzione dell'antico porto romano di Olbia attivo nel II sec. d.C.
Primo Piano
Illustrazione della storia della città e del suo territorio, dalla preistoria sino al XIX secolo ponendo l'accento sulle popolazioni che vi si sono succedute (Fenici, Greci, Punici, Romani, Vandali, Bizantini, Pisani,
Aragonesi.
- Sala 1: Qui troviamo spiegata, con reperti bronzei, tra i quali un modellino bronzeo di navicella nuragica proveniente da Enas e ancore preistoriche, la fase pre-nuragica e nuragica . Si passa poi al contatto con i Fenici, che creano nella città, intorno al 750 a.C, un emporio come base commerciale, Intorno al 630 a.C. si testimonia la presenza dei greci di Focea, i quali attribuiscono il nome alla città: OΛBIA, probabilmente l'unico centro greco dell'intera Sardegna del periodo. In questa sala possiamo ammirare una splendida coppa "corinzia" con diverse decorazioni animali e una testina fittile femminile.
- Sala 2: Sala di Cartaginedove si rimarca la conquista della città, da parte dei cartaginesi, intorno al 330 a.C. i quali crearono una vera e propria colonia per resistere a Roma. Qui possiamo vedere i materiali che testimoniano i vari rapporti commerciali tra Cartagine e l'intero Mediterraneo oltre alla cultura materiale, in particolar modo quella legata al culto dei morti e i materiali provenienti dalla necropoli. Si ricorda inoltre l'importante ritrovamento della collana di matrice fenicia, oggi conservata al Museo Nazionale di Cagliari, e qui resa visibile attraverso un pannello e la sua descrizione.
- Sala 3: L'ambiente testimonia la fase di passaggio tra l'Olbia punica e l'Olbia romana dove sono presenti alcune terracotte figurate e dei vasi provenienti da corredi funebri oltrechè le anfore del porto. Qui possiamo distinguere due tipologie di anfore da carico: la prima per la conservazione dell'olio con collo espanso e le altre due, una punica e una italica, per il vino. Da sottolineare la presenza di un blocco di granito con scolpita la dea Tanit proveniente dall'agro olbiese.
- Sala 4: Sala Romana o di Ercole si caratterizza per la presenza della statua, a grandezza naturale, relativa all'Eroe. In questo ambiente troviamo il plastico relativo all'Olbia romana, sculture degli imperatori Domiziano e Costantino, oggetti di uso quotidiano come pettini, fermagli per capelli etc, iscrizioni e urne cinarie, vetro e gioielli. Il reperto di gran lunga più importante è la straordinaria testa di Ercole, residuo di una statua di notevoli dimensioni, principale Divinità della città, della quale si propone al
visitatore una ricostruzione completa sia nei colori che nella grandezza.
- Sala 5: L'Olbia romana intrattiene, direttamente e
indirettamente, relazioni con l'intero Mediterraneo. Questo ambiente mostra insieme alle numerose merci di
importazione da tutto il mondo antico, diversi reperti che spiegano una rete di traffici estesa a tutto l'Impero. Gli oggetti più significativi sono un bruciaprofumi a figura di ananas o pigna da Cnido, un
askòs a forma di cammello dalla Siria, coppe a rilievo da Corinto, un
minuscolo zaffiro da Ceylon. Con il IV sec. d.C. si arriva all'epoca dei Vandali, una popolazione estranea all'Impero a cui si attribuisce la distruzione della città e del porto. In questa sala troviamo i reperti che testimoniano i contatti commerciali e l'interesse, da parte dei Vandali, per Sardegna, il Nord Africa e la Spagna.
- Sala 6: In quest'ultima salatroviamo descritta la storia di Olbia dalla presenza dei Bizantini sino alla dominazione aragonese e l'evolversi della situazione politica socio-economia del territorio. Qui si descrivono i vari nomi dati alla città durante le varie dominazioni: Phausania, Civita, Terranova, Terranova Pausania e per ultimo, nel 1939, Olbia.
Orari di Apertura / Opening TimesLUNEDI' - MARTEDI' chiuso
dal MERCOLEDI' alla DOMENICA
10:00-13:00 / 17:00-20:00
MONDAY - TUESDAY closed
from WEDNESDAY to SUNDAY
10:00-13:00 / 17:00-20:00
Ingresso gratuito | free entrance
INFO Tel. +39 0789 28290
Per visite guidate: Associazione ArcheOlbia - 3456328150 oppure archeolbia@gmail.com
Il Museo della Tonnara di Stintino è stato realizzato nel 1995 all'interno di una struttura dell'A.L.P.I. ed è situato sulla strada panoramica che porta da Stintino alle Saline.
L'edificio è di forma allungata ed è suddiviso in sei parti, caratteristica della tipica "tonnara", ovvero la rete di cattura. Le sale del Museo si dividono in:
Camera grande, Bordonarello, Bordonaro, Bastardo, di Ponente e della Morte, obbligando il visitatore a seguire lo stesso percorso che veniva compiuto dal branco quando si infilava nella rete e recependo le sensazioni della pesca attraverso il punto di vista del pescatore e supponendo un punto di vista del pesce.
Questo rende la visita interessantissima in quanto trasmette al visitatore la sensazione di essere un pesce predato. Nella seconda camera si approccia la biologia del tonno relativamente alla classificazione e all'indicazione delle specie presenti nel Mediterraneo. Una mappa riporta le rotte del pesce nel Mediterraneo indicando le principali stazioni tonnare, partendo dalla fine dell'ottocento, attive sino a poco tempo fa.
La camera n° 3 detta Bordonaro racconta la storia e i processi produttivi della Tonnara "Saline" posta nel Golfo dell'Asinara. Vengono mostrati i diari del direttore Penco e di alcuni pescatori risalenti ai primi del novecento. Vengono ancora descritti i compiti della ciurma di terra, di quella di mare e del Rais.
La camera detta "bastardo" affronta le radici del tempo ovvero caratterizza e cerca di descrivere la pesca del tonno dalla preistoria sino all'epoca classica raccontando quanto la pesca fosse importante addirittura per l'imperatore Caracalla. La "camera di ponente" è dedicata alle immagini.
Un settore riguarda l'interpretazione in chiave artistica data da maestri contemporanei mentre l'altro settore ospita la documentazione fotografica dall'ottocento fino agli anni settanta. La sesta camera detta " della morte" mostra l'atto finale della pesca attraverso filmati d'epoca e gigantografie dei pescatori impegnati nella cattura dei tonni.
Secondo gli studi effettuati dal Panedda[1] la
prima citazione sull’acquedotto è stata trovata nell’opera De Choreographia
Sardiniae di Fara[2] del XVI sec. d.C. ; una
successiva menzione è stata rinvenuta un secolo più tardi in una petizione del
sindaco di Tempio al viceré spagnolo. Soltanto nel XIX sec. Angius[3]
descrive in modo abbastanza particolareggiato l’acquedotto, quando ancora i
resti del monumento certamente apparivano in uno stato di buona conservazione.
E’ possibile trovare altre notizie negli scritti del canonico Giovanni Spano[4],
del Tamponi[5] e del Taramelli[6].
Il maggiore contributo per lo studio dell’acquedotto è stato fornito dal
D. Panedda[7] e
in epoca molto più recente dagli studi effettuati da D’Oriano[8] e
Sanciu[9].
L’acquedotto di Olbia è il monumento meglio conservato del periodo
romano, tanto che ancora oggi possiamo ammirarne numerosi resti e facilmente
ricostruirne tutto il tragitto e l’intera struttura. Intorno al II° sec. d.C.[10],
quando la città e il suo agro si andavano popolando notevolmente, venne
realizzata questa opera che, attraverso un percorso di circa Km 3.5,
raccoglieva e incanalava fino alla città antica le acque delle sorgenti di Cabu
Abbas[11],
altura granitica ricca di falde acquifere. Si consentiva così
l’approvvigionamento idrico sia per le terme che per tutte le altre necessità
della popolazione.
Il toponimo “CABU ABBAS”, di evidente derivazione latina[12],
corrisponde alla traduzione in lingua sarda di “Caput Aquarum”, cioè “capo
delle acque” (cabu = logudorese e campidanese significa “principio” e
corrisponde in latino a “caput”, mentre abba = logudorese corrisponde in latino
ad “aqua”).
I resti più evidenti dell’acquedotto si trovano in località “Sa
Rughitta”, dove è possibile vedere la piscina limaria, le arcate, un breve
tratto di muratura che si interrompe in prossimità della linea ferroviaria
Olbia - Golfo Aranci[13]
per poi ricomparire in Via Canova e Viale Aldo Moro.
Piscina limaria
In località Porto Romano e precisamente in Via Nannisi può vedere il tratto finale, dove sono
stati rinvenuti 9 piedritti, sui quali poggiavano le arcate; infine procedendo
verso la ferrovia, sempre in Via Nanni, sulla sinistra si notano dei ruderi che
testimoniano l’ultimissimo tratto dell’acquedotto, in prossimità del sito dove
si trovavano le terme.
Inoltre, sempre in località “Sa Rughitta”, è visibile una delle 4
cisterne prima esistenti, per la raccolta delle acque.
Analisi dei resti sopra citati
SA RUGHITTA
Questa area archeologica, situata a Km 1.5 dalla città e agevolmente
raggiungibile, è stata recintata e dotata di pannelli esplicativi, tra la fine
del 1989 e i primi mesi del 1990, in occasione della prima campagna di scavo e
restauro presso l’acquedotto romano, intervento motivato dal notevole degrado
del sito[14] .
L’acqua arrivava
attraverso condutture sotterranee, oggi non visibili, dalle falde del monte
Cabu Abbas in direzione Sa Rughitta, dove iniziava il percorso vero e proprio
dell’acquedotto e dove potevano vedersi due canali collettori su muro pieno,
attualmente appena intuibili per la vegetazione e l’interro,ma che il Panedda[15]descrive in maniera precisa. Tali collettori
di ampia luce ( cm 22 di larghezza per almeno cm 15 di altezza) presentavano
una struttura tecnica complessa: nel fondo una colata a “secco”, nelle
spallette strati alterni di mattoni triangolari e di calce, nello “specus” un
fine intonaco in “opus signinum”.
Durante i lavori effettuati nell’
1989-1990, sono emersi i resti di due condutture,una delle quali, mediante uno specus su muro
pieno[16],
raggiungeva una vasca (oggi sotterrata) per la decantazione dell’acqua, che
affluivaall’interno di una grande
cisterna ( m. 13,75 x m. 9 x m. 9 ) con volta a botte, oggi sostenuta da
puntelli in ferro, divisa in due parti da un tratto divisorio con 4 aperture
arcuate; sulla volta risultavano inizialmente 6 fori circolari ( attualmente ne
risultano 5 per il crollo di una parte della volta) per l’aerazione e la
manutenzione dell’ ambiente. Tale cisterna era stata realizzata in “opus
cementicium” ricoperto da “opus signinum”, per renderla impermeabile; anche
alla base di tutte le pareti, compresi i pilastri delle aperture, è stata
realizzata la “cordonatura” per isolare ancora meglio le basi della struttura
da infiltrazioni e impedire l’ accumulo di depositi, per evitare questo inoltre
tutti gli angoli erano stati resi tondeggianti, sempre mediante il ricorso alla
tecnica dell’ “opus signinum”.
L’opera non appariva collegata al successivo percorso dell’ acquedotto e
pertanto è da ipotizzarsi l’uso locale, forse per scopi agricoli. Secondo il
Sanciu: “l’opera fu probabilmente
realizzata per le necessità di una villa rustica forse appartenente ad un
latifondo imperiale, che doveva sorgere nelle vicinanze”[17].
La seconda conduttura è stata evidenziata, sempre nel corso degli scavi
sopra citati, per un tratto di m. 30. attualmente rinterrati, realizzato con
mattoni triangolari in 4 strati legati con malta, di cm. 26 di luce; questo
canale trasportava l’acqua alla “piscina limaria”, una vasca di decantazione (
di m. 3,60 x m. 3,50 x m. 0,60 ), le cui pareti sono state edificate nella
parte inferiore in opera cementizia, con pietre di medie dimensioni legate tra
loro con malta e pietre di piccole dimensioni, ricoperta in “opus signinum”; la
parte finale sovrastante, invece era stata realizzata con due file di mattoni (
bipedales ), internamente rivestita con cocciopesto (opus signinum), più duro,
più compatto e di colore più scuro rispetto all’esterno, onde garantire una più
efficiente impermeabilizzazione.
Plastico della città "Olbia romana"
In prossimità della vasca sono stati recuperati numerosi frammenti di
anforette, databili tra il I e il II sec. d.C. , ritrovamento che pare
plausibile con l’utilizzo del sito per attingere l’ acqua[18].
Sul lato meridionale della piscina sono visibili ancora i resti del muro
che metteva in connessione la piscina con la struttura arcuata, sulla quale era
collocato lo “specus” e della quale ancora oggi si conservano due archi interi
e due integrati con una struttura in ferro, l’altezza massima della struttura
meglio conservata è di circa m. 2,20.
Il restante tratto è segnato
dall’ allineamento deipiedritti,
regolarmente distanti l’uno dall’altro reggenti la struttura arcuata, la quale
consentiva il superamento del dislivello del terreno degradante da N verso S.
A partire dal tratto in cui il terreno superato il dislivelloassumeva un andamento non più degradante, è
possibile notare i resti di un muro pieno di circa m. 100 con un’ altezzamassima di m. 1, 80 sul quale poggiava lo
“specus” dell’ acqua, realizzato in opera cementizia come la struttura arcuata,
dove però sono stati utilizzati anche mattoni sia nei pilastri che negli
estradossi[19].
Dopo il tratto su muro pieno la struttura è stata interrotta per la realizzazione
della linea ferroviaria Olbia - Golfo Aranci, negli anni 1860-70, sotto la
direzione dell’ ing. inglese Piercy.
Via Canova angolo Viale Aldo Moro (già nota come Solladas)
Oltrepassata la linea ferroviaria, l’acquedotto si presentava di nuovo con
la struttura arcuata a causa del dislivello del terreno che riprendeva a
degradare ( tale situazione di degradamento ci viene confermata dagli scavi
effettuati nel 1990 in Via Bernini per la costruzione di una casa privata, dove
sono stati messi in luce quattro basi di piedritti che dovevano sostenevano
l’opera arcuata. Nel tratto scavato non è stato possibile rinvenire elementi
utili per la datazione)[20].
Attualmente soltanto parte dei basamenti della struttura sono visibili,
mentre altri risultano interrati, fino alla periferia del centro urbano. In
prossimità del vecchio Ospedale “S. Giovanni di Dio”, tra Via Canova e Viale
Aldo Moro, riappaiono in luce alcuni piedritti come alcuni tronconi della massa
muraria in opera listata, in situazione di crollo. Su qualche tratto murario
possono rilevarsi i resti di due condotte, una delle quali obliterata
dall’altra. La parte dell’ acquedotto di cui si parla era stata minuziosamente
descritta dal Panedda[21].
Nel corso degli scavi effettuati nel 2003 sotto la direzione del Sanciu
nel cortile interno dell’ Ospedale, sono stati rinvenuti quattro piedritti
inseriti nella roccia opportunamente scavata, a testimonianza di una modifica
del tracciato dell’acquedotto, dovuta evidentemente ad errori di calcolo della
prima progettazione, modifica da porre in relazione alla obliterazione e
successiva ricostruzione dello specus, già notate in Via Canova[22].
Tutta la zona attraversata dal suddetto tratto di acquedotto era un’area
non ancora urbanizzata ai margini della zona palustre attorno alla città.
Via Nanni (già nota Via Circonvallazione)
Asx: tratti dei piè dritti dell'acquedottoromano
L’acquedotto, superata l’area palustre, proseguiva all’interno dell’
antica cinta muraria, in loc. Porto romano. Qui troviamo oggi l’ultimo tratto
visibile della struttura, messo in luce dal Sanciu con la campagna di scavi del
2000[23].
Sono stati evidenziati nove basamenti di piedritti, che in media misurano m.
1,50 per lato, distanti tra loro circa m. 2,70-2,90, realizzati in opera
cementizia, mentre per il parametro esterno erano stati utilizzati massi
granitici, molto probabilmente prelevati da costruzioni più antiche
preesistenti nell’area, nella quale sono stati trovati ruderi di strutture
puniche e tardo-repubblicane[24].
Nel corso degli scavi, protrattisi per individuare esattamente la datazione
della struttura, al di sotto di uno strato di formazione recente, sono stati
rinvenuti resti di massa cementizia, con pietrame e pochi frammenti laterizi,
materiale riconducibile al crollo della struttura arcuata e utilizzato anche
per la realizzazione di una massicciata quale base di un viottoloche correva lungo l’antica struttura e di cui
si ha notizia fino al 1950[25].
In base agli studi effettuati sui ritrovamenti[26],
il Sanciu sostiene, come già il Panedda, (al quale egli rimanda anche per la descrizione
della tecnica costruttiva) che l’ intera costruzione sia stata realizzata tra
gli anni successivi al 125 e l’inizio del 200 d.C. e che gli stessi lavori di
rettifica del tracciato siano stati eseguiti subito dopo il primo collaudo
dell’opera[27].
Sempre in quest’ area, sul lato opposto della stessa Via Nanni, sono
visibili i resti dell’ultimo tratto in luce dell’acquedotto;originariamente dovevano raggiungere un’
altezza di m. 5 e che oggi, causa interri, sono visibili per un’ altezza di m.
2,50.
Tali ruderi sono ritenuti resti di un serbatoio per l’acqua o anche di
una torreper regolarne la pressione[28].
Da qui l’acquedotto doveva continuare per circa m. 200 sino alle terme,
come testimonia il Panedda, il quale scrive[29]
che nel 1889 il Tamponi[30] segnalava
un tratto di ben m. 135 di rovine della struttura, facenti capo alle terme,
situate nell’area oggi delimitata da Via S. Croce, Via delle Terme e Corso
Umberto I. Confermano tale percorso dell’ acquedotto i ritrovamenti effettuati
nel 1980[31], 1981[32] e
nel 1987[33].
Nel 1980, all’incrocio tra Via delle Terme e Via Acquedotto romano, è
stato ritrovato un troncone dell’acquedotto su muro pieno realizzato con la
tecnica a sacco e canaletta in cocciopesto.
Nel 1981 durante i lavori per la
rete idrica e fognaria del centro storico, in Via delle Terme vicolo “F” sono
stati evidenziati due tronconi dell’acquedotto, lunghi complessivamente circa
m. 7, realizzati con blocchi di granito legati tra loro con malta, formando
cosi una struttura a muro pieno che si collegava con il troncone messo in luce
l’anno precedente e con il pilastro originariamente alto m. 5, già esaminato,
in Via Nanni ( vedi pag. 7).
Nel 1987 i lavori per le fondamenta di una abitazione, sempre in Via
delle Terme vicolo “F”, hanno rimesso in evidenza un ulteriore tratto costituto
dalla base di un pilastro di arcata in connessione con il pilastro già noto al
Panedda e gli altri sopra citati.
Considerazioni finali sull’ acquedotto
L’ acquedotto di Olbia, monumento del periodo romano più significativo,
trasportava l’acqua dalle sorgenti delle falde granitiche di Cabu Abbas fino
alle terme della città, con un percorso rettilineo di oltre Km. 3, realizzato
interamente tra il II e l’inizio del III sec. d. C. , datazione confermata
anche dagli scavi più recenti[34].
Si deve ricordare che durante il secondo secolo d.C. in numerose aree
della Sardegna vengono realizzati nuove opere pubbliche oppure vengono
ristrutturate quelle preesistenti, come ad esempio le terme e il primo impianto
dell’acquedotto a Nora, l’acquedotto di Cagliari, di Tharros, l’acquedotto e le
terme di Neapolis e di Fordongianus, il restauro dell’ acquedotto di Porto
Torres. Pertanto è da inquadrarsi nello stesso periodo la costruzione dell’
acquedotto di Olbia; datazione supportata anche dai dati evidenziati nei
sondaggi stratigrafici[35].
Si può comunque affermare con sicurezza che la storia dell’acquedotto di Olbia
sia legata allo sviluppo della città in epoca imperiale, in un momento di
massima espansione dell’agro e di una maggiore floridezza economica,
testimoniata anche dalla costruzione nello stesso periodo delle terme. La
tecnica edilizia appare omogenea nell’intero percorso (utilizzo dell’opus
cementicium e dell’ opus signinum);presenta una struttura a tratti in “opus arcuatum”, li dove necessitava
seguire l’andamento degradante da N a S del terreno, a tratti in muro pieno, là
dove il terreno riprendeva l’andamento non degradante.
Per oltre due chilometri l’opera proseguiva con struttura arcuata, ad
eccezione di un breve tratto con struttura a muro pieno,al di fuori della cinta muraria antica fino a
raggiungere l’area urbana, con una leggera pendenza che garantiva l’afflusso
dell’acqua; quando questo non è avvenuto regolarmente per errori di calcolo
nella progettazione, l’opera è stata opportunamente adeguata subito dopo il
primo collaudo ( vedi pag. 6 tratto Via Canova).
Il tratto urbano presenta sempre lo stesso tipo di struttura, in gran
parte arcuata. Particolarmente interessanti risultano, a mio modestissimo
avviso, i resti di una costruzione imponente (vedi pag. 7), ritenuta oggi un
torre che consentiva il regolamento della pressione dell’ acqua.
Come raggiungerlo:
I resti dell'acquedotto romano sono visibili in località Sa Rughittula (dal lungomare di via dei Lidi si svolta a s. e subito dopo il cavalcavia si percorre la strada asfaltata per circa 1 km). Per info: ArcheOlbia 3456328150 oppure archeolbia@gmail.com
Bibliografia:
D. Panedda, Olbia nel periodo punico e romano, Roma, 1953;
D. Panedda, L'agro di Olbia nel periodo preistorico, punico e romano, Roma, 1954;
R. D'Oriano, "Olbia: ascendenze puniche nell'impianto urbanistico romano", in L'Africa Romana. Atti del VII convegno di Studio (Sassari, 15-17 dicembre 1989), Sassari, Gallizzi, 1990, pp. 487-496;
Olbia e il suo territorio. Storia e archeologia, Ozieri, Il Torchietto, 1991;
A. Sanciu, "Scavi all'acquedotto romano di Olbia", in Sardinia, Corsica
et Baleares antiquate. International Journal of Archaeology, I, 2003,
pp. 147-156;
A.R. Ghiotto, L'architettura romana nelle città della Sardegna, Roma, Quasar, 2004, pp. 194-195;
A. Mastino, Storia della Sardegna antica, Nuoro, Il Maestrale, 2005, pp. 286-289.
La datazione è stata confermata dal materiale
archeologico ritrovato ai piedi della piscina limaria: si tratta di frammenti
di ceramica comune e terra sigillata africana tipo “A”.
[11] La sorgente principale era situata
presso la chiesa di S. Maria di Cabu Abbas, tutt’ ora esistente. Probabilmente
nei pressi si trovava un luogo di culto delle acque già dal periodo protosardo.