AA.VV. e Marcello Cabriolu
Ph. Internet
Il
Dolmen di S. Silvestro è, per quanto sinora si conosca, per le sue
dimensioni ed in quanto particolarmente ben conservato nella sua
architettura complessiva, il monumento più rappresentativo del genere
della tomba a galleria, ben attestato da altri esempi nel barese (dolmen
di Bisceglie e di Corato). L'intervento di restauro conservativo,
seguito alla sua scoperta fortuita nel 1961, ha fatto sì che il
monumento possa ancora essere visitabile nonostante l'esposizione alle
intemperie.
Databile
alla media età del Bronzo (prima metà del II millennio a.C.), sorge su
uno dei terrazzi pianeggianti, tipici della Murgia barese, degradanti
verso la costa, incisi perpendicolarmente del corso delle lame, antichi
solchi erosivi a carattere torrentizio lungo il cui percorso si sono
attestati i principali insediamenti dell'antichità sin dal Neolitico.
L'erezione dell'imponente monumento, riservato alla sepoltura di gruppi
di rilievo nell'ambito della comunità, potrebbe forse essere attribuita a
quelle del centro costiero a pochi chilometri di distanza
sull'Adriatico, sito sul basso promontorio occupato oggi dall'odierno
abitato di Giovinazzo, secondo un modello ricorrente nella prima metà
del II millennio a.C. Sotto il cumulo di pietrame, in parte moderno, che
lo ricopriva, detto "Specchia Scalfanario", di forma subcircolare con
un diametro di m 35 ed un'altezza di m 4 si conservava il tumulo vero e
proprio, costituito da pietrame di medie dimensioni e contenuto entro
una crepidine di lastre calcaree alta m 1,30, con una pianta circolare
del diametro di m 30. Al di sotto ancora, una costruzione in opera
muraria a secco con pietre scelte e ben tagliate nella locale pietra
calcarea, alta m 2, a pianta ellittica con uno sviluppo massimo di m
7,50 inglobava un lungo vano a galleria con andamento nord-sud (dolmen),
eretto con l'impiego di lastroni infissi verticalmente e coperti da
analoghi in senso orizzontale per una lunghezza di m 17, purtroppo
danneggiato al momento della scoperta e diviso in due tronconi.
Per
impermeabilizzare l'interno, un letto di scaglie ricoperto da uno
strato di intonaco argilloso rivestiva le lastre di copertura.
All'estremità meridionale si apriva infine un ambiente probabilmente
scoperto a pianta circolare sulla cui parete, in corrispondenza della
galleria, un portello rettangolare immetteva all'interno come accesso
vero e proprio, utilizzando per le pratiche funerarie connesse con la
deposizione dei defunti. Analogo portello si apriva sul lato opposto, a
Nord. Nel troncone settentrionale, al momento della scoperta, si
conservava ancora il piano di deposizione delle sepolture, suddiviso in
setti tramite due lastre verticali, con i resti di tredici individui e
del corredo funerario. Di questo rimanevano soltanto alcuni frammenti di
vasi in impasto di tipologia protoappenninica, testimonianza superstite
di corredi che dovevano comprendere probabilmente anche beni di
prestigio, considerato il rango degli inumati cme armi e monili in
bronzo o altro materiale prezioso, come ambra, pietre dure ecc. L'esplorazione
archeologica dell'ambiente circolare ha inoltre provato che l'area del
dolmen era già frequentata per scopi sepolcrali prima della sua
erezione, sempre nell'ambito della media età del Bronzo, e che era
interessata ancor prima, nel V millennio a.C., da un insediamento del
Neolitico Antico.
Testi, disegni e ricostruzioni sono di L. Maletti e F. Radina
Posizione Geografica
Territorio circostante nell'eta' del bronzo
Ritrovamento
Il
15 Aprile 1961 l’arch. Antonio Milillo, Ispettore Onorario alle Opere
di Antichità e arte del territorio di Giovinazzo in provincia di Bari,
comunicava al Soprintendente alle Antichità della Puglia, dott. Nevio
Degrassi, che a pochi chilometri dalla città, sulla strada comunale per
Terlizzi, durante i lavori di sbancamento di un gran cumulo di Pietrame,
eseguiti dalla locale Impresa Stradale F.lli De Venuto, venivano in
luce “delle gallerie formate da larghi lastroni disposti verticalmente e
coperti da altre grandi lastre in senso orizzontale, molto simili a
dolmen”.
A
corredo della segnalazione il Milillo inviava alcune fotografie, le
quali confermavano l’importanza del ritrovamento. Inviato immediatamente
sul luogo della scoperta, non potei che constatare lo scempio subito
dal monumento, ch’era servito nello spazio di pochi giorni da comoda
cava di materiale litico riducibile in pietrisco stradale. Posti sotto
controllo gli ulteriori lavori dell’impresa, limitati ora esclusivamente
alla completa rimozione dei materiali di risulta, e provveduto con la
solerte collaborazione dell’arch. Milillo al puntellamento delle
strutture megalitiche più fatiscenti del monumento, fu purtroppo a
distanza di qualche mese che, rompendo gl’indugi e le pastoie
burocratiche, assunsi l’iniziativa, dopo di aver potuto salvare il
salvabile, di intraprendere una breve campagna di esplorazione
archeologica che servisse a chiarire i molti problemi connessi con
l’importanza scoperta e avesse anche lo scopo di intervenire con una
opportuna opera preliminare di restauro (Il restauro definitivo del
monumento, che convenzionalmente chiamo “dolmen a galleria”, verrà
eseguito prossimamente a cura della Soprintendenza alle Antichità della
Puglia)sulle parti superstiti del monumento.
Pertanto,
preso ogni accordo con il proprietario del fondo, il quale acconsentì
che da parte della Soprintendenza venissero adottate le più urgenti
misure atte ad assicurare la conservazione e la valorizzazione del
ritrovamento e incoraggiato dalla fattiva e apprezzata collaborazione
delle Autorità Comunali di Giovinazzo, nella seconda metà di agosto
dello stesso anno 1961 diedi inizio ad una minuziosa esplorazione del
monumento, che, per quanto compromessa in partenza dagli irreparabili
danneggiamenti da esso subiti, si rilevò presto di eccezionale
importanza scientifica, consentendo oltre che la classificazione
tipologica e la ricostruzione grafica del manufatto, anche la sua
determinazione cronologica nel quadro dell’architettura megalitica
protostorica pugliese e mediterranea.
Testi
tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice LoPorto
(Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII -
Volume76-1967)
Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA
Descrizione Monumento
La
località del ritrovamento è detta “S. Silvestro”. Sita nella piana di
Giovinazzo a circa m 70 s.m. nel terreno di proprietà del sig. Vincenzo
fiorentino, dove l’enorme accumulo di pietre in cui affondavano le
radici annosi carrubi prendeva il nome di “Specchia Scalfanario”,
distante m 80 circa dalla strada intercomunale che da Giovinazzo conduce
a Terlizzi e fiancheggiata da un sentiero che ha inizio sul lato ovest
della stessa strada, a km 4.100 dal passaggio a livello della linea
ferroviaria Bari-Foggia, prima di inoltrarsi nei campi coltivati a
mandorli ed oliveti, costellati di trulli suggestivi (Un bel trullo è
sorto recentemente a pochi metri di distanza dal “dolmen”. Esso
costituisce nel luogo, come in altre contrade della regione Appula, la
chiara testimonianza della continuità di una particolare tecnica
costruttiva che affonda le sue radici nella protostorica). La
“specchia”, prima che fosse sfruttata per detti deprecabili lavori, si
presentava nella zona come un ponticello a pianta sub-circolare di m 35
circa di diametro e oltre m 4 di altezza sul piano di campagna attuale e
costituito di terriccio e pietrame calcareo amorfo, al cui accumulo
dovette anche contribuire da lunghissimo tempo l’opera di “svecchiatura”
dei terreni circostanti, secondo una pratica agricola tipicamente
pugliese . Al disotto di questa specchia si eleva il vero “tumulo” di
terra nerastra e piccole pietre, tenute insieme dal fitto intrico delle
radici, tumulo che, nonostante la quasi completa rimozione abusiva dei
materiali che lo componevano, è risultato a pianta circolare di m 30 di
diametro e contenuto da uno zoccolo costruito a rozze lastre e blocchi
calcarei di medie dimensioni (tutte le parti strutturali del monumento
sono in calcare cretaceo a sfaldatura nastriforme, proveniente dai
banchi secondari del luogo. Cfr. F. Sacco, I G Puglia - Schema
geologico, 1911, p. 533 ss.), allineati in assise sovrapposte
opportunamente inzeppate di pietre più piccole. Di questa crepidine, che
doveva raggiungere in origine forse l’altezza di m 1,30 circa, si è
potuto salvare un breve tratto di m. 3,80 di lunghezza e m. 0,80 di
altezza. Esso ha lo spessore di poco più di m. 0,50 e da un saggio
praticato lungo la sua faccia interna mostra chiaramente che ogni blocco
o falda che lo compone si incunea nella massa pietrosa della parte
superstite del tumulo. Questo misurava alla sommità circa m. 4 di
altezza: fatto rilevato all’atto del nostro primo sopralluogo e prima
che si rendesse necessaria per la statica del monumento la rimozione
parziale della congerie di pietre e terra che opprimevano le sue
strutture sottostanti. Al
di sotto del tumulo, una grande costruzione a piccole lastre e
blocchetti sovrapposti ed uniti a secco in bellissima opera muraria nel
bianco calcare cretaceo locale raggiunge ora, nel lato ovest del
monumento, là dove non è stata manomessa, l’altezza massima superstite
di circa m. 2. Essa destinata alla completa distruzione e fortunatamente
salvata per poco più della metà longitudinale della sua mole, aveva
pianta pressoché ellittica di m. 21,20 di lunghezza e m. 7,50 di
larghezza massima, con l’estremità sud a fronte rettilinea e l’andamento
della cortina laterale a bastioni, cioè ad aggetti ricurvi e rientranze
per rendere più solida e statica la sua struttura. Questo imponente
apparecchio di pietre, spesso tagliate e scelte con una certa cura e
messe in opera con una non comune perizia, inglobava in senso
longitudinale e con perfetto orientamento sud-nord il monumento
funerario vero e proprio, costituito di un vano a pianta pressoché
circolare e di una “galleria” a struttura domenica.
Il
primo elemento è un ambiente cilindroide ricavato nell’anticorpo a
squadro dell’opera litica che ammorsa la costruzione interna. Ed è
appunto la presenza di questo vano a pianta circolare con le sue
esigenze d’ordine statico che richiede qui un avancorpo a fronte
rettilinea, che peraltro si accorda con una ideale funzionalità di
questo estremo sud del monumento, dove si presume dovesse esistere
l’accesso alla sepoltura.
La
struttura dell’ambiente si adegua a quella generale dell’insieme,
rivelandosi accurata, come nel parametro esterno, per ciò che riguarda
la scelta e l’impiego dei blocchetti e delle lastrine, gli uni e le
altre legati insieme in una compatta opera a secco. Le pareti sono tutte
a gobbe e rientranze anche a causa della pressione esercitata dalle
radici di un carrubo secolare ch’era sorto nel tumulo soprastante
proprio alle spalle della parte ora superstite del vano e che aveva
danneggiato la sua struttura interna, rendendosi pertanto necessario un
pronto rinforzo in cemento, facilmente camuffabile con pietre. Il
profilo delle stesse pareti mostra che esse tendono con dolce linea
curva ad allargarsi dal basso verso l’alto, sì che il diametro massimo
del cerchio di base, tutt’altro che regolare e piuttosto ellissoidale,
misura m. 3 circa, mentre quello del cerchio superiore è di oltre m.
3,50. Il vano inoltre, a giudicare da quanto ci rimane, seguendo in alto
la pendenza del tumulo in cui era inserito si presenta con una
stroncatura obliqua, misurando sul lato sud m. 1,50 e sul alto nord m.
2,30 di altezza.
Tracce
di una banchina in pietrame, di struttura analoga a quella delle
pareti, è parso di rilevare lungo la base dell’ambiente (La banchina
naturale è stata provvisoriamente costruita a scopo pratico di rinforzo
della base del muro superstite del vano. Per l’uso dei “sedili” nei
monumenti magalitici mediterranei cfr. le esedre dei templi maltesi –
EVANS, figg. 13, 17 – e quelle sarde dell e” tombe dei giganti” –
LILLIU, fig. 70-).
Questo,
che in un primo tempo non rinunciammo alla idea suggestiva di
considerare un esempio pugliese di tholos di tipo minoicomiceneo, ad un
esame più approfondito del monumento nulla ha rivelato che facesse
presumere l’esistenza di una cupola o pseudo-cupola (S.Sabina, p. 129;
LoPorto, Origini e sviluppo della civiltà del bronzo nella regione
apulo-materana, in “Atti X Riun. Scient. Dell’Istit. Ital. di Preist. e
Protost.”, 1966, p. 171. Cfr. nota 49). A parte la forma, quasi un
tronco di cono rovescio, cioè – come si è detto – con le pareti tendenti
ad allargarsi verso l’alto, piuttosto che restringersi, manca infatti
ad esso ogni traccia di intradosso o inizio di volta, cioè la presenza
di una o più lastre appartenenti a filari aggettanti; sicchè, a meno che
la sua copertura non fosse stata a struttura lignea (per l’impiego del
legno nelle camere funerarie dei tumuli armoricani cfr. GIOT, p. 128
ss.), fatto piuttosto improbabile, si deve ritenere che l’ambiente in
questione fosse in origine a cielo aperto, cioè pressappoco come si
presenta attualmente.
Un
portello, aperto sulla fiancata nord di questa che possiamo chiamare
“anticella”, immette nella galleria o camera funeraria. Esso è a m. 0,80
di altezza dal piano pavimentale dell’anticella e misura in alto ed in
basso rispettivamente m. 0,80 e m. 0,90 di larghezza e m. 0,60 di
altezza, essendo risparmiato nel muro di sbarramento dell’accesso alla
galleria, che, spesso alla base m. 0,70 e alla soglia dello stesso
portello m. 0,40 mentre sul lato est si incorpora con le strutture
d’innesto dell’anticella alla galleria, sul lato ovest va a giustapporsi
alla spalletta del muro dove è l’inizio d’opera del vano a pianta
circolare. Tale spalletta, corrispondente quindi in parte allo stipite
ovest del portello, è in allineamento con l’estremità orientale della
crepide superstite del tumulo e con quella parte terminale dell’opera
muraria di contenimento dell’anticella di m. 1,00 di spessore alla base,
che ha tutta l’aria di essere stata a vista, e dove un saggio di scavo
in profondità a ridosso di essa ha rivelato una interruzione alle
fondazioni dell’ambiente. Onde appare probabile, nonostante la rovina in
cui ci è stato restituito il monumento, che fosse qui l’ingresso
all’anticella, collegato forse a mezzo di un dromos con un varco aperto a
sud nello zoccolo del tumulo. L’anticella,
di cui gran parte della metà orientale si è potuta rilevare sulla base
delle fondazioni rimaste fortunatamente in situ, lega strutturalmente e
secondo un piano unitario prestabilito alla cosiddetta galleria, che
altro non è che una cella funeraria a pianta pressochè rettangolare
oltremodo allungata. Questa cella, in origine lunga ben m. 17, a causa
delle manomissioni subite anche nel passato, si presenta attualmente in
due tronconi imperfettamente allineati e rispettivamente di m. 6,40 e m.
7,60 di lunghezza, con una soluzione di continuità di circa m. 2,50,
corrispondente all’incirca alla parte centrale del monumento, là dove
profanatori di tombe forse di età medioevale, praticando dall’alto una
profonda buca nella massa pietrosa del tumulo, raggiunsero la sepoltura
distruggendo questo tratto interno della galleria (Nel corso delle
nostre esplorazioni sono stati scoperti un fiasco con decorazioni
invetriata verdastra ed una lucerna di tipo medioevale. Quest’ultima
servì forse ai depredatori per farsi luce nell’interno della sepoltura).
Essa è per gran parte della sua lunghezza a struttura dolmenica, cioè a
lastroni appena infissi verticalmente nel terreno e coperti da altri
analoghi in senso orrizontale; ma alle due estremità questa costruzione a
sistema “trilitico” si allunga in muratura a secco, a tecnica invero
molto accurata. E mentre i grossi lastroni della parte media della
galleria, e specie della copertura, sono impiegati tali e quali la
stratigrafia del calcare secondario locale li ha restituiti o sono
appena sbozzati, le lastre, spesso anche di notevoli dimensioni, e i
blocchetti usati nell’opera muraria tradiscono una lavorazione a
ritaglio tutt’altro che rozza e affrettata. Questi sono legati a secco
ad assise regolari sovrapposte e con gl’interstizi ripieni
opportunamente di schegge scelte con precisione quasi musiva. Nel
tratto più a sud della galleria, là dove essa s’innesta con
l’anticella, quest’opera in muratura si svolge per la lunghezza di oltre
m. 2 e l’altezza di circa m. 1,40 e i due paramenti interni, distanti
alla base di m. 1 circa, si restringono sensibilmente verso l’alto dove
distano m. 0,85. All’esterno, le lastre che costituiscono questi muri
regolari aggettano irregolarmente per inserirsi nel rifascio in pietrame
che avvolge la sepoltura. Una nicchia di m. 0,50 di larghezza, m. 0,40
di profondità e m. 0,50 di altezza sembrerebbe aprirsi nella parete
ovest di questo tratto meridionale della cella.
I
due muri si congiungono con due lastroni disposti verticalmente nel
senso della larghezza, prolungandosi in basso nei vuoti determinati
dalla irregolarità degli stessi. Il lastrone del lato ovest misura m.
1,80 di lunghezza, m. 1,40 di altezza e m. 0,12 di spessore; quello del
lato est, ora parzialmente rotto, misura rispettivamente m. 1,40 x m.
1,60 x m. 0,12. Entrambi si uniscono ad altri due bei lastroni, di cui
quello ovest lesionato e lungo m. 2,40, alto m. 1,40 e spesso m. 0,12;
mentre quello est misura m. 2,20 x m. 2,50 x m 0,12. Le lacune fra i
lastroni giustapposti sono inzeppate con piccole pietre.
Nell’intervallo
che segue a questo primo troncone della galleria c’è posto sufficiente
per due lastroni di circa m. 2,50 di lunghezza. Ad essi si univano
quelli dell’altro troncone, il cui allineamento devia rispetto al primo
di circa 5°. I primi due lastroni misurano m. 2,30 x m. 1,20 x m. 0,12 e
m. 1,80 x m.1,40 x m. 0,15, a cui seguono altri due di m. 2,10 x m.
1,20 x m. 0,15 e m. 1,60 x m.1,30 x m. 0,13. Fra i lastroni giustapposti
è la consueta inzeppatura di pietre minute. I due lastroni del lato
ovest, per quanto il taglio sembri coincidere, appartengono a falde
diverse. I due muri che completano all’estremità nord la galleria sono
di tecnica identica a quella dell’estremità sud. Essi misurano circa m. 3
di lunghezza e m. 1,40 di altezza, insinuandosi nelle lacune lasciate
dagli ultimi due lastroni e appoggiandosi alle spallette del muro di
controllo dell’opera litica che ingloba la tomba; inoltre, distando in
basso, all’estremo nord, m. 0,85 ed in alto m. 0,75, rivelano un
graduale sensibile restringimento della cella verso questa estremità,
che doveva in origine essere chiusa da un muretto di circa m. 0,60 alla
base, il quale pertanto si inseriva fra le stesse due spallette. Allo
stato attuale di conservazione del monumento, il piano della galleria si
presenta per gran parte pressoché al livello del piano di posa dei
lastroni ortostatici, cioè senza alcun rivestimento in pietra del fondo
terroso. Solo nel secondo troncone, nella parte più interna della cella,
e per oltre m. 3 di lunghezza, il piano di deposizione si alza di oltre
m. 0,50 su di un colmaticcio di pietrame amorfo rivestito di lastre di
m. 0,10 di spessore, di cui una reca un foro che appare naturale (Cfr.
GERVASIO, p. 9 ss.). Segue uno scomparto di m. 1,60 di lunghezza,
rialzato sul piano della galleria di circa m. 0,40 e costituito di un
altro riempimento di pietre su cui si adagia un lastrone di m. 1,50 di
lunghezza, m. 0,80 di larghezza e m. 0,10 di spessore, inserito fra due
lastre verticali di circa m. 0,80 di altezza, m. 0,85 di larghezza e m.
0,10 di spessore. Fu in questa porzione distinta della cella che
trovammo – come vedremo – i resti scheletrici oltremodo sconvolti di
numerosi individui insieme agli avanzi della suppellettile funeraria.
Rozzi
lastroni, spesso di notevoli dimensioni, fanno da copertura alla
galleria. Essi non poggiano direttamente sugli ortostati, sensibilmente
inclinati verso l’interno, ma su tutta una serie di lastre intermedie
regolarmente allineate nell’interno ed aggettanti all’esterno per
inserirsi nel pietrame che cinge la cella . Il primo lastrone, quello
che fa anche da architrave del portello, è ora lesionato e mutilo dalla
parte anteriore. Esso è lungo m. 1,60, largo m. 1,50 e spesso m. 0,15 e
poggia direttamente sui muri del tratto meridionale della cella,
coprendo in parte la nicchia. Segue un altro lastrone, lungo oltre m. 2,
largo m. 0,85 e spesso m. 0,15, il quale si inserisce più profondamente
verso il lato ovest nella struttura litica, forse per la funzione
ch’esso ha di fare parzialmente da copertura alla nicchia. Ad una
frattura trasversale del lastrone, certo verificatasi durante la sua
messa in opera, fu posto rimedio adagiandovi sopra un lastrone di oltre
m. 1,70 di lunghezza, m. 0,85 di larghezza e m. 0,14 di spessore, che
posa in parte sul lastrone successivo. Questo per la sua forma
irregolare, per la sua mole, misurando oltre m. 2 di lunghezza, m. 1,45
di larghezza e m. 0,18 di spessore, e per il fatto che grava sui
lastroni ortostatici, seppure qui a mezzo di interposte lastre-pulvino,
ha carattere decisamente dolmenico. Così pure il lastrone che segue,
gravemente danneggiato sulla sua fronte est e lungo m. 2,55, largo oltre
m. 2,20 e spesso m. 0,20 circa. Un grosso lastrone, lungo circa m. 2,
doveva coprire la parte centrale, ora lacunosa, della galleria,
affiancandosi al rozzo lastrone successivo di m. 2,50 di lunghezza, m.
1,55 di larghezza e m. 0,15 di spessore, che con mirabile effetto
megalitico si espande sui robusti pulvini che sormontano gli ortostati.
Due frammenti di un lastrone, che in origine doveva misurare m. 1,60 di
lunghezza, oltre m. 1,50 di larghezza e m. 0,19 di spessore, restano
della copertura di quel settore distinto della cella su cui si è
accanita l’azione distruttiva dei violatori di tombe. Sui muri della
parte terminale della galleria poggia un lastrone irregolare di oltre m.
1,70 di lunghezza, m. 1,20 di larghezza e m. 0,15 di spessore, il quale
s’incastra con il suo lato est fortemente aggettante nella struttura
litica che rinserra la cella. Ad esso faceva certamente seguito un
lastrone rinvenuto ai piedi del parametro esterno, sul suo lato nord,
dov’era scivolato dopo le manomissioni subite dalla sepoltura, e che per
essere lungo m. 1,80, largo m. 0,73 e spesso m. 0,13, mentre si accorda
con il restringimento della cella in questa parte più interna di essa,
si inserisce perfettamente nello spazio che intercorre fra il penultimo
lastrone della copertura e le spallette del muro esterno, confermando
che fra queste ed in allineamento con esse doveva interporsi una
muratura che chiudeva questa estremità settentrionale della galleria,
sbarrandone l’accesso da questo lato.
Penetrando
nella galleria ed esaminando attentamente la copertura dall’interno,
non può sfuggire che i punti d’incontro delle lastre sono accuratamente
inzeppati con schegge e pietruzze cementate con argilla giallastra, su
cui è possibile scorgere l’impronta lasciata dalla stecca. Tale ripiego,
adottato per preservare la cella dalla infiltrazioni di umidità, è la
conseguenza estrema di un sistema ingegnoso di drenaggio esperito sulla
copertura della cella. Per tutta la sua lunghezza, infatti, al disopra
dei lastroni orizzontali, è un letto di scaglie spesso sull’asse
principale circa m. 0,20 e tendente ad assottigliarsi lateralmente. Su
questo vespaio, per favorire il displuvio dell’acqua piovana, si espande
a centina uno strato di argilla, in cui è facile rilevare le tracce di
paglia e di foglie, che ha lo spessore di circa m. 0,15 e s’interrompe
poco sotto i fianchi della copertura. Questa tecnica doveva risultare
particolarmente efficace, dato che i sali calcarei determinati
dall’umidità non appaiono intaccare il vespaio e quindi la copertura
sottostante, con la conseguenza che la galleria rimaneva assolutamente
asciutta, nonostante l’assorbimento di acqua piovana provocata
dall’ingente massa terrosa e litica del tumulo sovrastante (una tecnica
analoga si riscontra in alcuni tumuli della Bretagna – GIOT, p. 136 ss.;
Ch. T. France, fig. 27 -. Cfr. inoltre i tumuli di Tumiac e Mont Saint
Michel nel Morbihan – G. et A. De Mortillet, Musée préhistorique, 1881,
tav. LIX: 574, 575- . Tali rivestimenti di argilla, intesi a proteggere
dall’umidità le camere sepolcrali, compaiono a Micene nelle tombe del
recinto B – G. E. Mylonas, Ancient Mycenae, 1957, p. 128 ss.; S.
Marinatos M. Hirmer, Creta e Micene, 1960, p. 120 ss.- . Per l’Etruria
vd. G. Caputo, La Montagnola di Qunto Fiorentino, l’orientalizzante e le
tholoi dell’Arno, in “Boll. D’Arte” 1962, p. 116 e p. 149, nota 11).
Testi
tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice Lo Porto
(Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII -
Volume76 - 1967)
Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA
Il Corredo
La
completa esplorazione della sepoltura ha messo in luce - come si è
detto – resti di deposizioni e di suppellettile funeraria soltanto in
quel settore della galleria delimitato da due tramezzi litici, riservato
forse ad un singolo gruppo familiare (tali divisori, presenti in Puglia
nei “dolmens a galleria” di Albarosa e Corato (Gervasio, pp. 47, 62),
corrispondono ai lastroni forati delle tombe megalitiche occidentali –
LEISNER, tavv. 14 ss.; Meg. Build p. 39 ss.; Ch. T. France, p. 43 ss.).
Allo stato delle nostre scoperte, tuttavia, non possiamo affermare se
sia stata la particolare voluta conformazione di questa sezione della
cella a conservarci, sebbene oltremodo sconvolte, le testimonianze di
una deposizione collettiva o se essa sia stata l’unica trovata dai
depredatori penetrati nella tomba attraverso il varco creato al centro
della galleria. Certo che l’assenza di resti ossei umani e di avanzi del
corredo in tutta la restante parte della cella, peraltro verso
mezzogiorno assolutamente priva di un piano pavimentale in pietra (a
meno che questa parte del pavimento della cella non fosse stata in legno
- cfr. GIOT, p. 135 ss. -. Lastre pavimentali, evidentemente destinate
alle deposizioni, furono notate nei “dolmen” pugliesi di Albarosa e
Leucapside – GERVASIO, pp. 53, 72 – ed in quelli francesi – CARTAILHAC,
La France préhistorique, 1896, p. 204 ss.; GIOT, p.114 ss-), che come
nella parte settentrionale fosse destinata ad accogliere le deposizioni,
farebbe pensare che queste, iniziate nella parte nord più interna della
cella, trovata priva della copertura e quindi manomessa, e continuate
nello scomparto successivo, l’una e l’altro appositamente costruiti con
due piani gradualmente rialzati su quello principale della galleria, non
siano state ultimate, per motivi che ci sfuggono, nel corridoio a piano
terra della sepoltura. Alcuni rari reperti archeologici, raccolti –
come vedremo – nel luogo del “dolmen” e di età di poco più recente di
quella riferibile alle deposizioni accertate, non escluderebbero però
del tutto la possibilità che queste fossero ulteriormente continuate
nella cella e disperse con il loro corredo dai violatori della tomba. Non
ci resta quindi che analizzare il materiale raccolto nella cella e
completare il quadro culturale e cronologico da esso offerto con quanto è
venuto in luce nel saggio di scavo dell’anticella e con quei pochi
avanzi vascolari rinvenuti nell’area dello scavo. Sul
lastrone che faceva da fondo allo scomparto della cella i resti ossei
umani commisti a terriccio nerastro erano numerosi, in frantumi ed in
stato di completo disordine. Essi appartengono a diversi individui, in
origine certamente inumati col rito del rannicchiamento. Notevole la
presenza anche di ossa combuste pertinenti a individui in numero
imprecisabile. Insieme fu raccolto qualche osso di animale carbonizzato
(Cfr. in Appendice l’esame del materiale osteologico, eseguito dal prof.
Luigi Cardini dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, a roma. La
combustione, anche parziale, dei cadaveri, si riscontra nelle tombe
minoiche – V.T.M., p. 129 ss.; LEVI, p. 7 ss.- ed in alcune sepolture a
tumulo occidentali – GIOT,p. 114 ss.; J. ARNAL, Les dolmes en pierres
séches en Languedoc, in “Riv. St. Lig.”, XIX, 1953, p. 32-. Ivi non
infrequente è anche la presenza di ossa animali – DECHELETTE, p. 404;
GIOT, p. 114-, fatto constatato in puglia nel “dolmen2 di Bisceglie -
GERVASIO, p.36 -. Per gli animali sacrificati nelle tombe cipriote vd.
P. DIKAIOS, A Guide to the Cyprus Museum, 1947, pp.13, 15 ss.).
Fra
le congerie caotica di tali ossami figurano non pochi frammenti di
ceramica d’impasto compatto bruno o nerastro, non ancora decisamente
buccheroide e a superficie per lo più levigata alla stecca o al
brunitoio nei prodotti più fini. Si tratta in gran parte di tazze di
piccole dimensioni, fra cui predominano le capeduncole carenate fornite
di un particolare tipo di ansa che ci porta ad una fase ancora iniziale
della civiltà del bronzo in Puglia.
Fra
i vasi di cui è stato più agevole il restauro, una capeduncola di m.
0,10 di diametro alla bocca, m. 0,03 di altezza (con l’ansa m. 0,10),
d’impasto nerastro a superficie liscia con discreta lucentezza, a pareti
quasi completamente erette e lievemente inclinate verso l’esterno,
l’orlo interamente arrotondato, il fondo spesso e convesso, è fornita di
ansa ad ascia piatta, leggermente incurvata all’infuori e con foro
tondo per la sospensione. Questa forma di ansa trova i più stretti
confronti negli esemplari dai livelli proto-appenninici di Porto Perone
(Porto Perone, p. 317, fig. 35: 15) e Scoglio del Tonno (G. SAFLUND,
Punta del Tonno, in “Dragma Martino P. Nilsson”, 1973, fig. 22), in
quelli raccolti nella tomba di S. Vito dei Normanni (S. Vito, p. 117,
fig. 4: 1, 2; tav. I: 3, 4), in alcune stazioni e necropoli del Materano
(Cfr. i materiali inediti da Grotta “La Monaca” e Santa Candida nel
Museo Nazionale “D. Ridola” di Matera, Vd. Inoltre il corredo della
tomba a grotticella di contrada S. Francesco nel Materano – U. RELLINI,
L’età eneolitica ed enea nel Materano, in “Atti e Memorie Soc. Magna
Grecia”, p. 1929, p. 139, fig. 13) e, risalendo la Penisola, a La Starza
(D. H. TRUMP, Scavi a La Starza, Ariano Irpino, in “Bull. Paletn.
Ital.”, LXIX-LXX, 1960-61, p. 228; Id., in “Pap. Br. Sch. Rom.”, XXXI,
1963, figg. 16, 17) e Conelle (R. PERONI, Per una definizione
dell’aspetto culturale “subappenninico” come fase cronologica a sé
stante, in “Memorie Accad. Lincei”, Serie VIII, Vol. IX, 1959, p.97, n.
111); mentre morfologicamente la tazza si allinea con gli analoghi vasi
di Pertosa (P. CARUCCI, La Grotta preistorica della Pertosa, 1906, tavv.
XXI-XXII; PUGLISI, p. 40, fig. 16).
Ad
un’altra capeduncola frammentaria di m. 0,10 di diametro e m. 0,05 di
altezza, d’impasto simile a quello del vaso precedente, a corpo
fortemente carenato, orlo espanso, spigolo sentito sotto la gola e fondo
umbilicato, appartiene probabilmente un frammento di ansa a nastro
asciforme strozzato ai margini laterali, riscontrabile a Porto Perone
(Porto Perone, fig. 57: 3, 4) e nella stazione protostorica di bari
(GERVASIO, figg. 75, 76) in livelli decisamente proto-appenninici. Di un
gruppo di capeduncole analoghe, più o meno frammentarie, manca
purtroppo la parte terminale dell’ansa che si presume fosse ad ascia, la
quale, come negli esemplari coevi dei livelli inferiori di Porto Perone
(Porto Perone, p. 347 ss.), di Bari (GERVASIO, p. 128 ss.) e della
tomba di S. Vito (S. Vito, p. 114 ss.), si è spesso irrobustita sul
dorso e alla radice da un risalto verticale a costola.
Facilmente
restaurata è stata una bella tazza (diam. M. 0,11; alt. M. 0,045)
d’impasto bruno cupo e a superficie levigata, forma a calotta sferica
con gola sotto l’orlo e spigolo vivo sottostante, fornita di piccola
ansa a nastro anulare (Cfr. Porto Perone. Fig. 34: 7; GERVASIO, figg. 6,
10). Ad una tazza analoga inoltre appartiene un’ansa ad anello
sormontato da un tubercolo, ora caduto (Cfr. Porto Perone, p. 317, nota
1). Infine, fra i frammenti recuperati è possibile riconoscere l’avanzo
di una brocca di forma tronco-conica rovescia, fornita di ansa a nastro
sopraelevato sull’orlo, come un esemplare integro della stazione di Bari
(GERVASIO, fig.80). Tutti i prodotti vascolari ci riportano a quella
fase arcaica dell’età del bronzo in Puglia, che abbiamo denominato
altrove “proto-appenninico B” (Porto Perone, p.367 ss.; S. Vito, p. 128
ss.).
Insieme
ad altri frammenti di ceramica d’impasto, raccolti durante i lavori di
smantellamento del “dolmen” e recuperati dall’arch. Milillo, figura una
grande ansa ad ascia ricurva e marginata con foro centrale, pertinente
ad una capeduncola di notevoli dimensioni e piuttosto comune fra i
materiali di Crispiano (Q. QUAGLIATI, Deposito sepolcrale con vasi
preistorici in Crispiano presso Taranto, in “Mon. Ant. Lincei”, XXVI,
1920-21, figg. 2, 3, 8, 17), Bari (GERVASIO, fig. 75), Pulo di Molfetta
(M. MAYER, Le stazioni preistoriche di Molfetta, 1904, fig. 74), S. Vito
dei Normanni (S. Vito, fig. 7: 2), Scoglio del Tonno (numerosi
frammenti inediti nel Museo Nazionale di taranto) e Porto Perone (Porto
Perone, figg. 34: 17; 57: 10), dove compare fra i prodotti riferibili ad
una fase piuttosto avanzata del nostro proto-appenninico B.
Questi
frammenti potrebbero – come si è detto – appartenere alle più tarde
deposizioni nella cella, andate forse disperse. Così pure un coccetto,
da me raccolto nel terreno dello scavo, di argilla figulina color giallo
rosato sia nell’interno che all’esterno, di cm. 2,7 di altezza ed
altrettanti di larghezza, recante sull’orlo interno una fascetta color
bruno lucente e su quello esterno tracce labilissime di un motivo
decorativo che il disegnatore D’Amicis ha reso. Tale frammentino sembra
appartenere ad una tazza micenea I-II di forma 204 (M. P., p. 53, fig.
15: 204), recante il motivo 48 (quirk) del Farumark (Idb., p. 359).
Un’ampio
saggio di scavo nell’interno dell’anticella ha messo in evidenza tutto
un ammasso di pietre calcificate, di carboni e di ceneri attribuibili al
più tardo impiego dell’ambiente, forse in età medioevale o moderna,
come fornace per calce, attestato peraltro dai segni appariscenti di una
prolungata esposizione al fuoco delle pietre che compongono il vano.
Successivamente si è riscontrata la seguente stratigrafia.
1.
Strato a: di argilla sabbiosa di circa m. 0,15 di spessore, costituente
il rivestimento pavimentale dell’anticella ed evidentemente concotto a
causa della fornace soprastante che ha distrutto eventuali tracce di
riti funebri, come, sacrifici di animali e fors’anche cremazione di
cadaveri, entrambi attestati dai rinvenimenti nella cella (Vd. nota
15).
2.
Strato b: di pietrame amorfo di m. 0,35 circa di spessore, formante una
sorta di sottofondo a vespaio del pavimento dell’anticella (una
massicciata analoga costituiva il pavimento dei “dolmen” di Albarosa –
GERVASIO, p. 53-). Esso inglobava resti scheletrici umani e frammenti di
vasi d’impasto d’età enea, forse pertinenti a deposizioni precedenti
l’erezione del “dolmen”. I vasi sono in gran parte capeduncole carenate
(fig. 28: 1-3, 5, 6), purtroppo mutile delle anse, ma tecnicamente
analoghe a quelle raccolte nella cella. Un frammentino dell’orlo
ribattuto di un vaso (fig. 28: 4) richiama un esemplare dal dolmen di
Corato (GERVASIO, fig. 25). Un altro appartiene a supporto “a
clessidra”, presente a Scoglio del Tonno (PUGLISI, tav. 19 g.) e nei
livelli proto-appenninici di Porto Perone (Porto Perone, fig. 34: 9).
3.
Strato c: di terriccio compatto nerastro di circa m. 0,20 di spessore,
ricco di frustuli di carbone e cenere. Insieme a qualche osso di bruto è
stata raccolta una dozzina di frammenti di ceramica neolitica,
esemplificata dall’orlo di vaso di rozzo impasto di piatto cordone
applicato, da un frammento di argilla più fine giallastra tendente al
grigiastro e ornato di impressioni cardiali, da un altro decisamente
figulino e color rosa intenso con tracce di ingubbiatura più chiara e di
banda rossa non marginata: tutti prodotti reperibili, per citare una
delle stazioni preistoriche più prossime, nell’insediamento neolitico di
Molfetta (MAYER, op. cit., passim; ID, Molfetta und matera, 1924, p. 70
ss.). Una scheggia di pietra calcarea sembra appartenere ad una lama a
sezione triangolare. Questo strato attesta dunque l’esistenza di un
precedente insediamento nel luogo della tomba: fatto constatato nel
dolmen di Albarosa (GERVASIO, p. 47 ss.). 4. Strato d: di terra color
tabacco carico, di m. 0,20 di spessore, sterile e costituente il
paleosuolo adagiato sul banco di roccia calcarea.
Testi
tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice Lo Porto
(Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII -
Volume76 -1967)
Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA
Considerazioni
Quando
nel 1961, nel corso degli scavi, diedi una notizia affrettata della
scoperta, ancora sotto la suggestione diretta di quelle prime
impressioni, che in ultima analisi si rivelano forse le più attendibili,
non ebbi alcuna esitazione di denunciare il “dolmen” di Giovinazzo come
un monumento funerario costituito di una lunga camera per le
deposizioni e di una anticella a pianta circolare ( GERVASIO, p. 47
ss.). Più tardi, al lume di una indagine erudita non ancora approfondita
però sui dati di scavo e forse sviata da troppo insistente richiamo
agli innegabili apporti culturali, di cui è permeato il formarsi della
civiltà protostoriche del Mediterraneo occidentale, ritenni di poter
affermare che “nel grandioso dolmen di Giovinazzo, come nella tomba di
Romeral ad Antequera nella penisola iberica, un ambiente circolare
architettonico affine alla tholos micenea si innesta, al disotto di un
enorme “specchia” delimitata da un cerchio di pietre, ad una costruzione
rettilinea in grossi lastroni” (LO PORTO, in “Riv. Sc. Preist, XVI,
1961, p.270 qui considerato di età subappenninica. Cenni sulla sepoltura
trovasi in TRUMP, Central and Southern Italy Before Rome, 1966, p. 146 e
PERONI, Archeologia della Puglia preistorica, 1967, p. 106). Non poteva
infatti sfuggirmi quanto affine all’architettura delle tombe micenee
fossero e la pianta e l’alzato e le relative parti strutturali della
sepoltura. Basta del resto dare una sommaria scorsa ai disegni e alle
riproduzioni fotografiche del monumento perché risalti imperioso il
binomio dromos – tholos, con l’aggiunta del tumulo di spiccata
tradizione egea (Cfr. S. Sabina, p. 128 (ivi bibl.). Sulla diffusione in
Occidente della tomba a tumulo vd. G. DANIEL - J. ARNAL. Les monuments
megalithiques et la forme des tumuli en France et en Angleterre, in
Bull. Soc. Prehist. Franc. 1962; Meg. Build., passium; A. ARRIBAS,
Megalitismo peninsular - I Simposium de Prehistoria Iberica, 1959;
PUGLISI, p. 43).
Sembra
a tutta prima che la galleria del nostro dolmen altro non sia che il
lungo corridoio di accesso alla cella a pianta circolare, la cui
copertura non poteva risolversi che in una falsa volta col sistema
dell'aggetto, quale doveva essere nelle più antiche tombe a tholos di
Micene ( A. J. B. WACE, in "Br. Sc. Ath.", XXV, 1921-23, p.287 ss.). Con
queste infatti, e specie con le tombe di Epano Phournos (Ibd., 292,
fig. 52, tav. XLIV b.) e di Egisto ( Ibd., p. 296, figg. 54 - 56, tav.
XLVI, Vd, inoltre WICE, Mycenae, an Archaeolo gical History and Guide,
1949, p. 128 ss.), databili per la presenza di ceramica LH I a nonn più
tardi del XVI secolo a.C., la tomba di Giovinazzo ha in comune almeno la
tecnica di costruzione a secco in blocchetti e lastre a struttura
pseudo-isodoma. Questa tecnica trova peraltro ancora più impressionante
somiglianza in quella rivelata dalla cretese tomba a tholos di Kamilari
(LEVI, p. 7 ss.), posteriore alle molte sepolture analoghe della Messarà
(V.T.M., passim), ma risalente, secondo il Levi, agli inizi dell'età
proto-palaziale di Phaestos e quindi databile al MM II b, cioè al
1800-1700 a.C., corrispondente alla cronologia offerta dalla
suppellettile recuperata nel nostro dolmen.
C'è
inoltre nello schema generale del monumento, e indipendentemente dalle
funzioni assolte dai singoli elementi architettonici, una certa affinità
con le cosiddette "tombe a corridoio" della Penisola Iberica, e
specialmente con quelle più significative della fase più avanzata della
cultura di Los Millares (fase II B = 1800-1600 a.C.) (LEISNER, p. 586
ss. Cfr. M. ALMAGRO, La primera fecha absoluta para la cultura de Los
Millares a base del Carbonio 14, in "Ampurias", XXI, 1958; M. ALMAGRO -
A. ARRIBAS, El poblado y la necropolis megaliticos de Los Millares,
1963), alla cui cronologia fa ancora riscontro quella assegnabile grosso
modo alla tomba di Giovinazzo.
Come
è noto, queste tombe iberiche, come quelle micenee, dispongono di un
corridoio (dromos), spesso di lunghezza notevole, e di un ambiente a
pianta per lo più circolare coperto da pseudo-cupola (tholos). La loro
struttura si fonda sul sistema della parete a lastroni ortostatici
architravati e, nella fase più evoluta, di quella con muro a secco ad
assise sovrapposte. Il tumulo circolare contornato di pietre o di lastre
è di rito in tali sepolture (LEISNER, passim, Vd. nota 50). Esse, oltre
che nella Penisola Iberica, sono diffuse in Francia (DECHELETTE, p. 388
ss.; Ch. T. France, p. 45 ss.; GIOT, p. 42 ss. Vd. bibl. in F.
BIANCOFIORE, Architettura megalitica, "Arte Antica e Moderna", 1964,
p.16 ss.), Gran Bretagna (Ch. T. England, passim, Vd. inoltre bibl.in
BIANCOFIORE, op. cit., p.18, nota 62.) e altre regioni dell'Europa
nord-occidentale ( Per la Danimarca, Svezia e Germania sett. vd.
BIANCOFIORE, op. cit., p. 21, nota 77 ivi bibl.), in cui fra il III e II
millennio a.C. seguono una evoluzione locale ( Sulle opposte tesi,
orientalista e occidentalista, circa l'origine dei monumenti megalitici
iberici vd. J. MYRES, Cupola Tombs in the Aegean and Iberia, in
"Antiquity", 1953, p. 3 ss.; S. PIGGOT, The Tholos Tombs in Iberia, in
"Antiquity", 1953, p. 137 ss.; Meg Build., p. 73 ss.; ARRIBAS, Meg.
pen., cit., passim.), solo in origine soggetta agli influssi immediati
del mondo egeo, donde si introduce nel Mediterraneo occidentale, accanto
al tipo di sepoltura ipogea collettiva (Cfr. le tombe a grotticella
cicladiche e cipriote con quelle coeve della Marna (Ch. T. France, p.
46) e di Alapraia I, Palmella III e Carenque III nel Portogallo (Meg.
Build., p. 29 ss), generalmente tradotta in forme megalitiche, il
principio della pseudo-cupola, documentato nel III millennio a.C. dalle
"corbelled tombs" protoegee di Krazi, Hagios Kosmas e Syros, così come
dalle più antiche tholoi di Almeria e Algarve (G. CHILD. The Middle
Bronze Age, in "Arch. de Prehist. Levant.", IV, 195), p. 17) ss.; M. S.
F. HOOD, Tholos Tombs of the Aegean, in "Antiquity", 1960, p. 166 ss.).
Nonostante
le affinità morfologiche che il dolmen di Giovinazzo presenta con le
tombe a corridoio egee ed occidentali, appare difficile, per quanto si è
detto sopra, poterlo inserire nella classe dei monumenti testé
menzionati. Esso potrebbe piuttosto collegarsi con le cosiddette "tombe a
galleria", diffusissime nell'Europa nord-occidentale (Ch. T. England,
passim; Meg. Build., p. 41 ss.; Ch. T. France, p. 43 ss. Vd. bibl.
BIANCOFIORE, op. cit., p. 14 ss.).
La
tomba a galleria (fr. allée converte; ingl. gallery grave) è costituita
di una lunga e stretta camera a pareti ortostatiche, chiusa ad una
estremità e con copertura di grossi lastroni. Il tracciato della
galleria non sempre è rettilineo (DE MORTILLET, op. cit., tav. LVIII),
né vige una regola fissa per l'orientamento (DECHELETTE, p. 38); e, come
nelle tombe a corridoio, lastroni forati a "portello" dividono in vari
scomparti l'ambiente allungato, il quale è inglobato in un tumulo a
pianta ellittica (longbarrow). Essendo inoltre una sepoltura collettiva,
vi si ritrovano numerose ossa di inumati, mentre resti di cremati, per
quanto rari, sono presenti (Ch. T. France, p. 45 ss.). Considerato come
una variante della tomba a corridoio, e quindi ad essa contemporaneo,
questo genere di sepoltura ha il suo periodo di grande fioritura in
Francia fra il 1800 e il 1600 a.C. (Meg. Build., p. 211 ss.; DANIEL, The
Dual Nature of the Megalithic Colonization of Prehistoric Europe, in
"Proc. Prehist. Soc.", 1941, p. 1 ss.).
Un
richiamo diretto a tali monumenti funerari megalitici francesi,
presenti anche in Spagna nelle province di Cordoba, Granada e Malaga
(LEISNER, tavv. 35-57), costituiscono nelle Baleari la navetas di
Minorca (Meg. Build., fig 14; J. MASCARO' PASARIUS, Els monuments
megalitics a l'illa de Menorca, 1958, p. 23 ss.) e Maiorca (Ip.,
Tipologia de les monumentos megaliticos de Mallorca, 1952, p. 45 ss.,
Vd. bibl. in BIANCOFIORE, op. cit., p. 15, nota 50) e in Sardegna i
"dolmen allungati" con cella divisa in due da un lastrone e coperti da
cumulo terragno (galgal) con o senza recinzione litica (LILLIU, p. 87,
fig. 17: 2), dai quali è lecito credere con il Lilliu si sia giunti,
dopo un processo di evoluzione formale, ai primi esempi di "tombe dei
giganti" con grandi fasciami murari oblunghi ad U e ancora privi di
esedra frontale (Ibd., p. 168, fig. 31: 1,2, Recentemente la dott.
Editta Castaldi ha scoperto in Gallura una interessante tomba costruita
in due tempi: la prima fase consta in un'allée con fasciame di pietre
anche sulla fronte, la seconda presenta l'esedra aggiunta. L'eventualità
che nel "dolmen" di Giovinazzo l'anticella sia stata aggiunta in un
secondo tempo è assolutamente da escludere). Senza dubbio l'estremo
limite orientale della diffusione nel Mediterraneo occidentale della
tomba a galleria è la Puglia perché tali sono senz'altro i "dolmen" di
Albarosa, Corato e Bisceglie, in provincia di Bari, e quello di
Leucaspide, presso Taranto (LILLIU, p. 90; BIANCOFIORE, op. cit., p. 15;
TRUMP, op. cit., p. 145; PERONI, op. cit., p.84 ss).
Il
"dolmen" di Albarosa (GERVASIO, p. 47 ss) è costituito di una galleria
divisa in due da una lastra trasversale. Esso è inoltre incorporato in
una specchia contornata da un muro a secco come a Giovinazzo, e sorge
ugualmente nel sito di un precedente insediamento neolitico e fors'anche
eneo iniziale. E' dubbio infatti se alcuni frammenti di anse a gomito,
peculiari della facies di Cellino S. Marco (proto-appenninico A = 2000 -
1800 a.C.)( LO PORTO, La tomba di Cellino San Marco e l'inizio della
civiltà del bronzo in Puglia, in "Bull. Paletn. Ital." LXXI - LXXII,
1962-63, p. 214 ss), facciano parte del corredo della tomba o del
giacimento sottostante. Un'ansa ad ascia di foggia evoluta (GERVASIO,
fig. 21) tipica delle capeduncole del proto-appenninico B avanzato, può
essere appartenuta alla suppellettile funeraria del "dolmen", la cui
dotazione pertanto si porrebbe fra il 1700 e il 1600 a.C.).
Altro
"dolmen a galleria" è quello Frisari, presso Bisceglie (Ibd., p. 59
ss), e quello di Corato (Ibd., p. 62 ss), il quale per la sua
suddivisione in più sezioni presenta qualche affinità con la tomba di
Giovinazzo. Così quello più tardo di Bisceglie (Ibd., p. 5 ss), in
origine cinto da fasciame murario a secco, nel cui corredo figura
ceramica tipicamente meso-appenninica e quindi databile al 1600 - 1400
a.C. (Cfr. Porto Perone, p. 370 ss). Del pieno proto-appenninico B, per
la presenza di un'ansa ad ascia nelle suppellettile funeraria, è
l'analogo "dolmen" di Leucaspide (GERVASIO, p. 72 ss.) e pertanto
risalente al 1800-1700 a.C.
Tutte
queste tombe megalitiche pugliesi del genere "a galleria" (L'esempio
più settentrionale e verisimilmente il "dolmen" Molinello sul Gargano
(PUGLISI, Le culture dei capannicoli sul promontorio Gargano, in "Mem.
Acc. Lincei", Serie VIII, Vol. II, 1948, p. 30 ss.) - come è noto - si
distinguono architettonicamente dai dolmens semplici, soprattutto
diffusi nel Leccese (GERVASIO, p. 69 ss.; G. PALUMBO, Inventario dei
dolmen di Terra d'Otranto, in "Riv. Sc. Preist.", XI, 1956, p. 84 ss.;
TRUMP, op. cit., p. 87 ss.; PERONI, op. cit., p. 106 ss.) e
verisimilmente connessi con i "menhirs" o "pietrefitte" (GERVASIO, p.
336 ss.; G. PALUMBO, Inventario delle pietrefitte salentine, in "Riv.
Sc. Preist.", X, 1955, p. 86 ss.; TRUMP, op. cit., p. 89 ss.; PERONI,
op. cit., p. 106). Tali dolmens, allo stato attuale delle ricerche (Una
serie di esplorazioni verrà presto effettuata dallo scrivente nei vari
siti dei monumenti megalitici pugliesi), sfuggono per l'assenza dei
corredi ad una precisa determinazione cronologica, nonostante siano
stati collegati con quelli della Corsica (R. GROSJEAN, Rapports
Corse-Sardaigne-Pouilles, in "Bull. Soc. Preist. Franc." LVII, 1960, p.
301 ss.), della Sardegna (LILLIU, p. 87 ss.; Ip., I Nuraghi, 1961, pp.
22, 42 ss.) e soprattutto quelli molto simili e geograficamente vicini
di Malta (J. D. EVANS, The "dolmens" of Malta and the Origins of the
Tarxien Cemetery Culture, in "Proc. Prehist. Soc.", 1965, p. 85 ss.)
concomitanti con la cultura delle tombe a cremazione di Tarxien e quindi
riferibili al 1800- 1700 a.C. (L. BERNABO' BREA, Malta and the
Mediterraneam, 1960, p. 132 ss.).
La
tomba di Giovinazzo, nonostante la sua particolare struttura, si
collega col predetto gruppo dei "dolmens a galleria" di Terra di Bari,
con cui presenta molti punti di contatto formali, cronologici e
culturali. E se dobbiamo rinunciare all'idea, per tutte quelle
considerazioni scaturite dalla illustrazione del monumento, di
considerarlo affine ai sepulcros de cupola iberici di tradizione egea,
ricollegandolo invece alle coeve gallery graves dell'Europa
nord-occidentale, è certo che i costruttori della sepoltura, non
ignorando e l'una e l'altra forma tombale, ma sotto l'impulso di tali
esperienze di architettura mediterranea, adattarono a forme megalitiche
ed in struttura muraria a secco con tumulo cinto da crepidine (Nella
regione apulo-materana tombe a tumulo sono quelle di tipo "siculo" di
Murgia Timone (G. PATRONI, Un villaggio siculo presso Matera nell'antica
Apulia, in "Mon. Ant. Lincei" VIII, 1898, col, 417 ss.) e quelle
"tardo-appenniniche" di S. Sabina, presso Brindisi (S. Sabina, p. 123
ss.); così come le "piccole specchie" salentine, con camera dolmenica e
dromos (DRAGO, p. 190 ss.), che sono "sub-appenniniche" e
"protovillanoviane", come le tombe scoperte recentemente dal collega
prof. Rittatore Vonwiller a Ischia di Castro, nel Viterbese
(Comunicazione dello stesso alla XII Riunione Scientifica in Sicilia
dell'Ist. Ital. di Preist. e Prot., ottobre 1967), le quali, con quelle
analoghe di Pian Sultano (PUGLISI, p. 52, ivi bibl.), ci portano
direttamente alla tipologia delle tombe paleo-etrusche (vd. CAPUTO, op.
cit., p. 138 ss.). Dell'VIII secolo a.C. sono le tombe singole a tumulo
di Altamura (BIANCOFIORE, Struttura e materiali dei sepolcri a tumulo di
Altamura (Bari), in "Rend. Acc. Napoli", 1964, p. 3 ss.) e di
Murgecchia nel Materano (Scavi Lo Porto, 1967) la coeva tomba
proto-appenninica a grotticella artificiale, costituita di cella e
pozzetto cilindrico di accesso (Cfr. LO PORTO, La tomba di Cellino,
cit., p. 214 ss. Anche la nicchia a lato della cella, frequentissima
nelle sepolture megalittiche occidentali (LEISNER, tavv. 18-28 ss.; Meg.
Build., fig. 8), così come a Cipro (E. GJERSTAD, in "Swed. Cypr.
Exped.", I, 1934, figg. 49, 53) e in Sicilia (BERNABO' BREA, La Sicilia
prima dei Greci, 1958, fig. 20), si ritrova nella coeva tomba a
grotticella di S. Vito dei Normanni (S. Vito, fig. 1), traducendola in
una camera funeraria allungata, come le allées couvertes dell'Occidente
europeo, preceduta da anticella a pianta circolare (E' dubbio -come si è
detto sopra - se l'accesso dell'anticella avvenisse dall'alto, a mezzo
di un'apertura nel tumulo soprastante, o molto più probabilmente da un
passaggio praticato nel muro dell'ambiente).
Naturalmente
la costruzione di una tomba di siffatta mole, che gli avanzi del
corredo tipicamente proto-appenninico B ci portano a datare al 1800-1700
a.C., con una continuità di seppellimenti forse fino al XVI secolo
a.C., come sembrerebbe provarlo anche la presenza di ceramica micenea
I-II (Per la ceramica MIc. I-II scoperta in Puglia vd. Porto Perone,
p.333 ss.; BIANCOFIORE, Civiltà micenea nell'Italia meridionale, 1967,
p. 37 ss. Vd. inoltre LO PORTO, Scavi a Punta delle Terrare (Brindisi),
in "Ricerche e Studi - Museo Ribezzo di Brindisi", Quaderno n. 3, 1967,
p. 106). Per le Eolie vd. L. BENABO' BREA - M. CAVALIER, Civiltà
preistoriche delle isole Eolie e del territorio di Milazzo, in "Bull.
Paletn. Ital." LXV, 1956, p. 52; W. TAYLOUR, Mycenean Pottery in Italy,
1958, p. 13 ss.; L. BENABO' BREA - M. CAVALIER, Ricerche paleontologiche
nell'isola di Filicudi, in "Bull. Paletn. Ital." LXXV, p. 168 ss.),
comporta lo sforpo comune di genti stabilmente insediate nella zona, non
diversamente che nelle stazioni prossime e contemporanee del Pulo di
Molfetta (M. MAYER, Le stazioni preistoriche di Molfetta, p. 4 ss.) e di
Bari (GERVASIO, p. 106 ss.), non lungi dalla costa e quindi interessate
da tutta una corrente di traffici marittimi col mondo egeo e,
attraverso le isole, Sicilia, Malta, Sardegna, Corsica, con quello del
Mediterraneo occidentale (All'origine di questo movimento commerciale
anche col mondo occidentale attestato all'inizio dell'età dei metalli
dalla diffusione del vaso iberico campaniforme, è l'approvvigionamento
del rame e dello stagno. Cfr.. La tomba di Cellino, cit., p. 218 ss.; S.
JUNGHANS - E. SANGMEISTER - M. SCHRODER, Metallanalysen
kupferzeitlicher und frubronzezeitlicher Bodenfunde aus Europa, 1960; F.
BIANCOFIORE, La metallurgia del rame nell'antica Europa ed il suo
significato storico in "Emilia Preromana", 1964, p. 417 ss.): il che
spiega il diffondersi e l'attecchire di particolari forme
architettoniche, evidentemente favorite dalle condizioni geologiche
ambientali.
Abbreviazioni Bibliografiche
- Ch. T. England. - G.E. DANIEL, The Prehistoric Chamber Tombs of England and Wales, 1950.
- Ch. T. France. - G.E. DANIEL, The Prehistoric Chamber Tombs of France, 1960.
- DECHELETTE - J. DECHELETTE, Manuel d'archéologie préhistorique, 1908.
- DRAGO - C. DRAGO, Specchie di Puglia, in "Bull. Paletn. Ital." LXIV, 1954 -58, p. 171 ss.
- EVANS. - J.D. EVANS, Malta, 1959.
- GERVASIO - M. GERVASIO, I dolmen e la civiltà del bronzo nelle Puglie, 1913.
- GIOT. - P. R. GIOT, Brittany, 1960.
- LEISNER. - G. u. V. LEISNER, Die Megalithgraber der Iberischen Halbinsel, 1943.
- LEVI. - D. LEVI, La tomba a tholos di Kamilari presso Festòs, in "Ann. Sc. Ital. Atene", n.s. XXIII-XXIV, 1961-62 p. 7 ss.
- LILLIU. - G. LILLIU, La civiltà dei Sardi, 1961.
- Meg. Build. - G. E. DANIEL, The Megalith Builder of Western Europe, 1958
- M. P. - A. FURUMARK, The Mycaenean Pottery, 1941.
- Porto Perone - F. G. LO PORTO, Leporano (Taranto) - La stazione protostorica di Porto Perone, in "Not. Scavi", 1963, p. 280 ss.
- PUGLISI - S. PUGLISI, La civiltà appenninica, 1959.
- S.
Sabina. - F. G. LO PORTO, Sepolcreto tardo - appenninico con ceramica
micenea a S. Sabina presso Brindisi, in "Boll. d'arte", 1963, p. 123 ss.
- S.
Vito. - F. G. LO PORTO, La tomba di S. Vito dei Normanni e il "proto -
appenninico B" in Puglia, in "Bull. Paletn. Ital.", LXXIII, 1964, p. 109
ss.
- V. T. M. - S. XANTHOUDIDES, The Vaulted Tombs of Mesara, 1924.
- Testi tratti da IL "DOLMEN A GALLERIA" DI GIOVINAZZO di Gino Felice Lo Porto
- (Estratto dal Bullettino di Paletnologia Italiana Nuova Serie XVIII - Volume76 -1967)
- Edito da Istituto Grafico Tiberino - ROMA