di Marcello Cabriolu
Il
modulo cittadino, prevalentemente edificato su rilievi dominanti e in
prossimità di fonti di approvvigionamento idrico, curiosamente in piena armonia
con i centri urbani dei Tursha[1],
ricalca a grandi linee l’impostazione degli insediamenti cantonali, definiti
ora distretti[2]. Ancora
insistono, persino nei centri più importanti, i vari quartieri racchiusi
da cinte murarie palesemente “a sacco”, con l’esterno in grosse pietre talora
sbozzate e l’interno in pietre più piccole[3].
Un esempio preciso lo possiamo trovare nel contesto di Sulky, dove
appunto la cinta, ridefinita arbitrariamente “di casematte”, è composta da
grossi blocchi ignimbritici, in bugnato rustico[4].
Essa separa il quartiere dei vivi da quello dei morti, con parallelismi davvero
interessanti tra gli apparati urbani etruschi[5].
Si è detto che le città ricalcano e si fondano su insediamenti precedenti -
come è il caso dei centri etruschi quali Veio[6]
- anche perché persistono attorno a queste dei nuraghi semplici a controllo
delle principali vie d’accesso[7].
Il Nuraghe Tersilla, ad esempio, controlla l’accesso, collocato a Nord, dell’abitato
di Santa Giusta a Muravera[8].
Nell’abitato di Sulky, a Sant’Antioco, si porta invece come esempio il nuraghe
collocato alla base del Forte Su Pisu, disposto anch’esso in prossimità de “Santa
e Is Andaras”, ovvero la via sacra di accesso all’abitato.
I
dubbi sull’effettiva collocazione di Sulky
creano, nello scrivente, non poche difficoltà di elaborazione, in quanto
il centro urbano rinvenuto tutt’ora non rispetta le misurazioni date
dall’interpretazione cartografica della
geografia tolemaica. L’elaborazione resa da Tolomeo si rivela sempre così
esatta[9] e puntale per
tutti gli altri insediamenti tanto da presupporsi altrettanto esatta nella
collocazione dell’antico centro di Sulky.
Solleva tante perplessità invece quello che gli studiosi attuali
travisano come centro urbano sulcitano che attualmente non rispetta né le
coordinate tolemaiche nè le distanze stabilite in epoca romana e si mostra come
affetto da un errore di collocazione superiore ai 12 km.
Definita questa
precisazione passiamo ora al contesto tharrense, dove il Nuraghe Baboe Cabitza
controlla costa e accesso alla città con lo stesso ruolo che occupano il Nuraghe
Diana relativamente all’altipiano di Pani Loriga a Santadi oppure ancora il Tanca
di Spartivento[10] e
il Monte Settiballas relativamente al
centro di Bithia. Le città nuragiche si presentano inoltre corollate da cinte
di muraglioni concentrici collocati sul profilo del rilievo ospitante, segnale
di una consistente organizzazione militare a difesa del territorio e della
posizione di rilievo occupata, protrattasi almeno sino al VI sec. a.C.[11]. Le città
presentano opere difensive quali porte turrite e cinte murarie poderose
rinforzate da torri, tutte remore della concezione difensiva degli insediamenti
rurali, quali ad esempio le torri a tenaglia della cinta muraria eretta al Nuraghe
Losa, dove è assolutamente possibile asserire con fermezza la completa assenza
di frequentazione fenicia o punica[12].
La città del Bronzo Medio - come poteva
essere Sulky[13],
giudicata tra le più antiche insieme agli insediamenti del Sulcis[14]
- fungeva da collettore e da ridistributore del surplus di risorse, come ad
esempio il rame argentifero, il piombo, il ferro e l’argento[15].
Il materiale proveniente dai centri interni[16]
veniva trasportato su una rete stradale costellata da insediamenti rurali come
il nuraghe Sirai[17] o da avamposti
militari come Monte Sirai[18]
oppure Pani Loriga, anch’essi protetti da cinta muraria[19].
Si può sostenere che gli impianti urbani del Sulcis siano tra i più antichi in
quanto sono quelli che presentano maggiori affinità urbane e di cultura
materiale con l’Antico Egitto e la regione del Levantino a sud di Monte Carmelo
(El – Hawat). Di riflesso in Egitto nei contesti di Medinet Habu, quasi a
corroborare questa elaborazione compaiono chiaramente rappresentati i guerrieri
Shardana con le insegne tipiche dei bronzetti rinvenuti a Uta, in località
Monte Arcosu e a Santadi[20]
.
A testimoniare l’alta antichità o una forma esclusiva di contatti estesi in precedenza solo al Sulcis, accostabili alle presenze Shardana nel Levantino e nell’Egeo, si cita la presenza di frammenti di ceramica qualificabile come Miceneo III (1190-1050 a.C.)[21], rinvenuti nel contesto abitativo di Sulky. Ulteriore conferma all’elaborazione precedente ci viene data dal recupero di ceramiche qualificate come in stile miceneo e filisteo - quali una Stirrup Jar – rinvenute ad esempio in prossimità del Nuraghe Is Baccas a Nora[22], sottolineando il costante e capillare contatto culturale e manifatturiero, quasi invadente, da parte dei contesti isolani nei confronti del Levantino, molto più di quanto non ci venga solitamente descritto. L’impianto urbano ordinato viene esposto avente forma fusiforme o sub ellittica e cinto da mura di macigni aggettanti, ridefinite “a cremagliera”, con cortine semplici e torri[23]. L’impianto cittadino mostra abitazioni, magazzini e laboratori raggruppati in isolati allungati che si affacciavano su lunghe vie tendenzialmente parallele: uno schema urbano che si protrae sino all’epoca imperiale, come testimonia il poeta Claudiano (IV sec. d.C.)[24]. Qui ci si sofferma ad accomunare la planimetria di abitati quali Karalis, Sulky, Tharros, Sirai con contesti abitativi egizi quali Tell el-Amarna[25] e Deir el-Medina[26], ricordando che questi ultimi erano frequentati dagli Shardana e perciò tali da costituire una fonte d’ispirazione per i gruppi umani rientrati in patria.
Tale elaborazione è suffragata dalla presenza di elementi di culture materiali, definite cipriota ed egizia, databili attorno al XII sec. a.C.[27], segno di esclusiva frequentazione da parte della Lega micenea in centri come ad esempio Tharros o Sulky, abitati da genti nuragiche. Di riflesso, quasi a confermare l’origine Shardana dei centri, si sottolinea che in contesti quali Santu Antine di Genoni, San Simeone di Bonorva, Su Palattu di Padria non si è rinvenuto nessun elemento di matrice punica[28]. Per dovere di cronaca si riporta l’imprecisa e insistente, quasi ostinata, pretesa di alcuni studiosi[29] di voler legare toponimi quali Magomadas, Tharros oppure Neapolis - dove non esistono tracce di frequentazione fenicia o punica[30] - con il termine Qart Hadasht, inteso come città nuova, solo per giustificare un’improbabile matrice nordafricana dei contesti indigeni. Ci si vuole soffermare un attimo per rimarcare la totale assenza di contrasto tra popolazioni di etnie differenti in quanto – e ciò è confermato dalla genetica - non sussistono in Sardegna popolazioni differenti. I contatti, evidenziati a seguito di scambi commerciali, paiono univocamente svolti tra lo stesso gruppo umano sia esso stanziato sul territorio sia esso navigante, in quanto ambedue le componenti sono caratterizzate dall’uso della stessa suppellettile che dalle medesime abitudini urbane. L’impianto stradario urbano ci mostra dei tracciati rettilinei senza tortuosità, come ad esempio a Tharros e Karalis, della larghezza di circa 4 m, che si adeguano alla configurazione del terreno. Il fondo stradale, come negli insediamenti minori, era pavimentato da lastre di vari litotipi e verrà successivamente ricalcato nell’impianto urbano di epoca romana imperiale. Gli edifici possono essere descritti di forma quadrangolare, costituiti da piano terra e primo piano soppalcato e con diversi vani intonacati con una miscela di cenere e calce[31]. La conformazione strutturale delle abitazioni ricorda le capanne definite “ a settori” dei centri rurali, come ad esempio Su Nuraxi di Barumini e Serra Orrios di Dorgali, dove ora i tramezzi semicircolari di origine arcaica, rigorosamente a telaio, vengono sostituiti dai tramezzi rettilinei. Le murature interne definiscono degli ambienti precisi, affacciati sul cortile centrale, luogo di raccolta delle acque piovane, creando edifici somiglianti a is lollas attuali. I diversi ambienti di cui erano costituite le abitazioni mostrano un indirizzo prevalentemente residenziale anche se in alcuni contesti vengono rinvenuti locali a chiaro uso “artigianale” come ad esempio per la lavorazione e la conservazione del tonno. La pavimentazione delle abitazioni e degli edifici in genere viene realizzata in cocciopesto, un metodo di impasto che richiama l’antica abitudine di rinforzare gli impasti ceramici con dimagrante di tipo calcareo per dare più solidità al manufatto. L’approvvigionamento idrico urbano era assicurato dalle numerose cisterne domestiche e dalle fonti pubbliche, connesse mediante canalizzazioni sotterranee ai punti di fruizione - come viene testimoniato anche nell’impianto urbano etrusco[32] - oltre che dalle canalizzazioni di acque piovane attraverso pozzetti fognari ciechi[33]. Per quanto riguarda gli edifici osservati, questi sono stati individuati esclusivamente ad uso civile (abitazioni, bagni termali, botteghe) o a carattere religioso (templi)[34], rimangono perciò assenti le strutture ad uso politico, forse per il protrarsi dell’utilizzo dei nuraghi e delle capanne delle riunioni. L’area funeraria rispetta la collocazione degli insediamenti cantonali: prevalentemente nei settori settentrionali[35] [36] e quasi a ridosso degli abitati. Le testimonianze a sostegno di ciò si possono trovare nel contesto di Olbia[37] come in quello di Kalaris [38] o ancora di Monte Luna, a settentrione di Santu Teru di Senorbì, oppure ancora a Pani Loriga di Santadi[39] o a Nora[40],
A testimoniare l’alta antichità o una forma esclusiva di contatti estesi in precedenza solo al Sulcis, accostabili alle presenze Shardana nel Levantino e nell’Egeo, si cita la presenza di frammenti di ceramica qualificabile come Miceneo III (1190-1050 a.C.)[21], rinvenuti nel contesto abitativo di Sulky. Ulteriore conferma all’elaborazione precedente ci viene data dal recupero di ceramiche qualificate come in stile miceneo e filisteo - quali una Stirrup Jar – rinvenute ad esempio in prossimità del Nuraghe Is Baccas a Nora[22], sottolineando il costante e capillare contatto culturale e manifatturiero, quasi invadente, da parte dei contesti isolani nei confronti del Levantino, molto più di quanto non ci venga solitamente descritto. L’impianto urbano ordinato viene esposto avente forma fusiforme o sub ellittica e cinto da mura di macigni aggettanti, ridefinite “a cremagliera”, con cortine semplici e torri[23]. L’impianto cittadino mostra abitazioni, magazzini e laboratori raggruppati in isolati allungati che si affacciavano su lunghe vie tendenzialmente parallele: uno schema urbano che si protrae sino all’epoca imperiale, come testimonia il poeta Claudiano (IV sec. d.C.)[24]. Qui ci si sofferma ad accomunare la planimetria di abitati quali Karalis, Sulky, Tharros, Sirai con contesti abitativi egizi quali Tell el-Amarna[25] e Deir el-Medina[26], ricordando che questi ultimi erano frequentati dagli Shardana e perciò tali da costituire una fonte d’ispirazione per i gruppi umani rientrati in patria.
Tale elaborazione è suffragata dalla presenza di elementi di culture materiali, definite cipriota ed egizia, databili attorno al XII sec. a.C.[27], segno di esclusiva frequentazione da parte della Lega micenea in centri come ad esempio Tharros o Sulky, abitati da genti nuragiche. Di riflesso, quasi a confermare l’origine Shardana dei centri, si sottolinea che in contesti quali Santu Antine di Genoni, San Simeone di Bonorva, Su Palattu di Padria non si è rinvenuto nessun elemento di matrice punica[28]. Per dovere di cronaca si riporta l’imprecisa e insistente, quasi ostinata, pretesa di alcuni studiosi[29] di voler legare toponimi quali Magomadas, Tharros oppure Neapolis - dove non esistono tracce di frequentazione fenicia o punica[30] - con il termine Qart Hadasht, inteso come città nuova, solo per giustificare un’improbabile matrice nordafricana dei contesti indigeni. Ci si vuole soffermare un attimo per rimarcare la totale assenza di contrasto tra popolazioni di etnie differenti in quanto – e ciò è confermato dalla genetica - non sussistono in Sardegna popolazioni differenti. I contatti, evidenziati a seguito di scambi commerciali, paiono univocamente svolti tra lo stesso gruppo umano sia esso stanziato sul territorio sia esso navigante, in quanto ambedue le componenti sono caratterizzate dall’uso della stessa suppellettile che dalle medesime abitudini urbane. L’impianto stradario urbano ci mostra dei tracciati rettilinei senza tortuosità, come ad esempio a Tharros e Karalis, della larghezza di circa 4 m, che si adeguano alla configurazione del terreno. Il fondo stradale, come negli insediamenti minori, era pavimentato da lastre di vari litotipi e verrà successivamente ricalcato nell’impianto urbano di epoca romana imperiale. Gli edifici possono essere descritti di forma quadrangolare, costituiti da piano terra e primo piano soppalcato e con diversi vani intonacati con una miscela di cenere e calce[31]. La conformazione strutturale delle abitazioni ricorda le capanne definite “ a settori” dei centri rurali, come ad esempio Su Nuraxi di Barumini e Serra Orrios di Dorgali, dove ora i tramezzi semicircolari di origine arcaica, rigorosamente a telaio, vengono sostituiti dai tramezzi rettilinei. Le murature interne definiscono degli ambienti precisi, affacciati sul cortile centrale, luogo di raccolta delle acque piovane, creando edifici somiglianti a is lollas attuali. I diversi ambienti di cui erano costituite le abitazioni mostrano un indirizzo prevalentemente residenziale anche se in alcuni contesti vengono rinvenuti locali a chiaro uso “artigianale” come ad esempio per la lavorazione e la conservazione del tonno. La pavimentazione delle abitazioni e degli edifici in genere viene realizzata in cocciopesto, un metodo di impasto che richiama l’antica abitudine di rinforzare gli impasti ceramici con dimagrante di tipo calcareo per dare più solidità al manufatto. L’approvvigionamento idrico urbano era assicurato dalle numerose cisterne domestiche e dalle fonti pubbliche, connesse mediante canalizzazioni sotterranee ai punti di fruizione - come viene testimoniato anche nell’impianto urbano etrusco[32] - oltre che dalle canalizzazioni di acque piovane attraverso pozzetti fognari ciechi[33]. Per quanto riguarda gli edifici osservati, questi sono stati individuati esclusivamente ad uso civile (abitazioni, bagni termali, botteghe) o a carattere religioso (templi)[34], rimangono perciò assenti le strutture ad uso politico, forse per il protrarsi dell’utilizzo dei nuraghi e delle capanne delle riunioni. L’area funeraria rispetta la collocazione degli insediamenti cantonali: prevalentemente nei settori settentrionali[35] [36] e quasi a ridosso degli abitati. Le testimonianze a sostegno di ciò si possono trovare nel contesto di Olbia[37] come in quello di Kalaris [38] o ancora di Monte Luna, a settentrione di Santu Teru di Senorbì, oppure ancora a Pani Loriga di Santadi[39] o a Nora[40],
aree tutte caratterizzate dalla presenza
della sepoltura di un antenato/eroe. Il rituale funerario, attestato sin dal
Neolitico, prevedeva l’inumazione - verosimilmente per le classi meno abbienti
- in camere ipogee e, solo in casi eccezionali, motivati probabilmente da
epidemie, l’incinerazione. L’inumazione appare quindi consolidata e indiscutibile anche
nell’Età del Ferro (IX sec.a.C. – VI sec. a.C.) nonostante le varie e
immotivate supposizioni contrarie. Tralasciando diverse centinaia di aree
funerarie, un esempio tangibile di inumazione in camere ipogee riviste e
ampliate è costituito dal contesto di Pani Loriga a Santadi, dove le Domus de Janas
neolitiche furono ampliate e rivisitate[41]
durante il Bronzo Medio. Un’altra testimonianza è data dagli ipogei funerari
sottostanti la Basilica di Sant’Antioco Martire a Sant’Antioco i quali, nati
come Domus de Janas e decorati con motivi a spirale e protomi taurine[42],
vennero riutilizzati con soluzione di continuità sino all’epoca cristiana. Il
rapporto tra abitato e necropoli è sempre stato correlato, tanto che la
crescita di uno avrebbe comportato necessariamente l’ampliamento dell’altra.
La crescita cittadina, in contesti come Tharros, Sirai, Karalys, carenti di spazi a meridione, spinse allo spostamento della cinta muraria settentrionale, che andò così a sovrapporsi alle più antiche sepolture[43], mentre la necropoli proseguì la sua espansione ponendo le sepolture più recenti sempre più a settentrione. Il sostegno a tale elaborazione si può facilmente trovare nell’analisi del contesto funerario di Sulky dove le sepolture più antiche sono collocate in zona Montecresia, in prossimità della vecchia cinta muraria. Una volta ampliata la città la cinta venne riposizionata dove sorge attualmente - ovvero in corrispondenza della collina del Forte sabaudo - e le sepolture più arcaiche - dove compare una protome taurina - vennero inglobate nel tessuto urbano, mentre le più recenti vennero scavate più a Nord[44]. La presenza eccezionale di due necropoli, una meridionale ed una settentrionale, nei centri di Tharros e Karalys, fa supporre l’esistenza di due centri nati separati e confluiti poi in un unica grande città. Lo scavo degli ipogei, probabilmente attuato da una squadra di operai specializzati, rivela l’utilizzo di strumenti quali scalpelli con taglio di circa 4 cm oppure di piccozze come quelle forgiate nei contesti metallurgici (cfr 5.3). Le camere spesso propongono pitture parietali riproducenti la Divinità oppure motivi geometrici e metopali[45] di profonda tradizione neolitica. Addirittura, nel caso di Othoca[46], un lampante esempio di riutilizzo - con precisi accostamenti ad un caveaux – batis di Byblo - mostra il soffitto a doppio spiovente di indubbio gusto neolitico.
La struttura architettonica delle sepolture, nonostante trovi precisi riferimenti con il nord Africa[47], è autoctona, in quanto molto antica e affermata sul territorio. L’alta antichità e l’originalità degli elementi sepolcrali sardi, quali i corredi e le decorazioni in rilievo e dipinte in rosso ocra, scaturiscono in maniera talmente forte e importante da infiltrarsi persino tra gli elementi berberi collocati nella sponda meridionale del Mediterraneo. Non è errato considerare che verosimilmente la cultura ipogeica sarda sia stata esportata nel Mediterraneo centrale e nel Nord Africa dai naviganti Shardana durante i contatti con i Libou e i Meshwesh. La tecnica di tumulazione prevedeva gli stessi procedimenti tipici quali il lavaggio e l’unzione[48], caratterizzanti il rituale di matrice neolitica[49]. Si è già preannunciato che all’interno delle aree funerarie trovano spazio alcuni edifici definiti templari-heroon, probabilmente in corrispondenza della citata sepoltura dell’antenato–eroe, come è possibile osservare ad Antas di Fluminimaggiore[50], a Monte Sirai di Carbonia[51], a Sa Guardia ‘e is Pingiaras di Sant’Antioco oppure ancora a Su Muru Mannu di Tharros e a Nora[52]. E’ doveroso segnalare che i rituali funerari appena descritti, quali il processo di trattamento del defunto unito all’inumazione in camere ipogee quasi addossate alla sepoltura dell’eroe–antenato, trovano sempre un riscontro preciso nei complessi funerari dell’Antico Egitto[53], quasi a dare sostegno alle testimonianze di contatti e scambi culturali tra le milizie Shardana e la cultura egizia del XIV sec. a.C. E’ancora d’obbligo segnalare che la consuetudine di tumulare in prossimità di eroi o antenati è testimoniata in svariati siti trasversalmente a varie epoche e culture come a S’Ena e Thomes di Dorgali (Tomba dei Giganti Bronzo Medio e epoche di tumulazione successive), a Su Romanzesu di Bitti (heroon e sepolture successive), a Montecresia a Sant’Antioco (domus con protome e catacombe cristiane), ad Antas di Fluminimaggiore (sepolture a forno del Bronzo Finale/Ferro I)[54]. Sulla base di queste valutazioni è possibile descrivere un contesto sinora trascurato e che merita più ampi studi e valutazioni quale l’acropoli di Tharros.
La crescita cittadina, in contesti come Tharros, Sirai, Karalys, carenti di spazi a meridione, spinse allo spostamento della cinta muraria settentrionale, che andò così a sovrapporsi alle più antiche sepolture[43], mentre la necropoli proseguì la sua espansione ponendo le sepolture più recenti sempre più a settentrione. Il sostegno a tale elaborazione si può facilmente trovare nell’analisi del contesto funerario di Sulky dove le sepolture più antiche sono collocate in zona Montecresia, in prossimità della vecchia cinta muraria. Una volta ampliata la città la cinta venne riposizionata dove sorge attualmente - ovvero in corrispondenza della collina del Forte sabaudo - e le sepolture più arcaiche - dove compare una protome taurina - vennero inglobate nel tessuto urbano, mentre le più recenti vennero scavate più a Nord[44]. La presenza eccezionale di due necropoli, una meridionale ed una settentrionale, nei centri di Tharros e Karalys, fa supporre l’esistenza di due centri nati separati e confluiti poi in un unica grande città. Lo scavo degli ipogei, probabilmente attuato da una squadra di operai specializzati, rivela l’utilizzo di strumenti quali scalpelli con taglio di circa 4 cm oppure di piccozze come quelle forgiate nei contesti metallurgici (cfr 5.3). Le camere spesso propongono pitture parietali riproducenti la Divinità oppure motivi geometrici e metopali[45] di profonda tradizione neolitica. Addirittura, nel caso di Othoca[46], un lampante esempio di riutilizzo - con precisi accostamenti ad un caveaux – batis di Byblo - mostra il soffitto a doppio spiovente di indubbio gusto neolitico.
La struttura architettonica delle sepolture, nonostante trovi precisi riferimenti con il nord Africa[47], è autoctona, in quanto molto antica e affermata sul territorio. L’alta antichità e l’originalità degli elementi sepolcrali sardi, quali i corredi e le decorazioni in rilievo e dipinte in rosso ocra, scaturiscono in maniera talmente forte e importante da infiltrarsi persino tra gli elementi berberi collocati nella sponda meridionale del Mediterraneo. Non è errato considerare che verosimilmente la cultura ipogeica sarda sia stata esportata nel Mediterraneo centrale e nel Nord Africa dai naviganti Shardana durante i contatti con i Libou e i Meshwesh. La tecnica di tumulazione prevedeva gli stessi procedimenti tipici quali il lavaggio e l’unzione[48], caratterizzanti il rituale di matrice neolitica[49]. Si è già preannunciato che all’interno delle aree funerarie trovano spazio alcuni edifici definiti templari-heroon, probabilmente in corrispondenza della citata sepoltura dell’antenato–eroe, come è possibile osservare ad Antas di Fluminimaggiore[50], a Monte Sirai di Carbonia[51], a Sa Guardia ‘e is Pingiaras di Sant’Antioco oppure ancora a Su Muru Mannu di Tharros e a Nora[52]. E’ doveroso segnalare che i rituali funerari appena descritti, quali il processo di trattamento del defunto unito all’inumazione in camere ipogee quasi addossate alla sepoltura dell’eroe–antenato, trovano sempre un riscontro preciso nei complessi funerari dell’Antico Egitto[53], quasi a dare sostegno alle testimonianze di contatti e scambi culturali tra le milizie Shardana e la cultura egizia del XIV sec. a.C. E’ancora d’obbligo segnalare che la consuetudine di tumulare in prossimità di eroi o antenati è testimoniata in svariati siti trasversalmente a varie epoche e culture come a S’Ena e Thomes di Dorgali (Tomba dei Giganti Bronzo Medio e epoche di tumulazione successive), a Su Romanzesu di Bitti (heroon e sepolture successive), a Montecresia a Sant’Antioco (domus con protome e catacombe cristiane), ad Antas di Fluminimaggiore (sepolture a forno del Bronzo Finale/Ferro I)[54]. Sulla base di queste valutazioni è possibile descrivere un contesto sinora trascurato e che merita più ampi studi e valutazioni quale l’acropoli di Tharros.
L’acropoli di Tharros, denominato anche Su Muru Mannu, ospita il basamento di un edificio rettangolare decorato con motivi metopali e numerosi frammenti di colonne. Attorno all’edificio emergono, in un contesto trascurato e coperto di erbacce, i gradoni di accesso alla struttura, in materiale ignimbritico, segnati dagli incavi per gli stipiti in legno. Le dimensioni della struttura e gli accessi suggeriscono che si tratti di una costruzione importante, la collocazione sul colmo dell’acropoli sostiene l’ipotesi avanzata e la presenza di numerosi frammenti di colonne, in arenaria gessosa, suggerisce che si tratti di un tempio. Nel 1974 e nelle successive campagne di scavo svolte nella località Monti Prama vennero rinvenuti dei frantumi di arenaria gessosa in giacitura secondaria, derivati dalla frammentazione di grosse statue. Queste statue, frammentate in più di 5000 pezzi erano accompagnate in uno strato sterile da frammenti di bronzo e ceramica che andavano dall’Età Nuragica a quella romana[55]. Un restauro operato in “tutta fretta” con metodi alquanto invasivi ha restituito dei colossi di 2,50 mt circa di altezza riproducenti 16 “pugilatori”, 8 guerrieri ed un individuo più grande rispetto agli altri, per un totale di 25 statue. Si segnala inoltre che l’azione di restauro deve aver asportato “accidentalmente” la colorazione originale presente sulle statue[56]. I frammenti hanno rivelato inoltre la presenza di capitelli di colonne e riproduzioni di lucerne o bruciaprofumi erroneamente classificati come “modellini di nuraghi”. Per fortuna i rinvenimenti di bracieri[57], simili ai modellini di nuraghi - quali quello della capanna delle riunioni di Palmavera ad Alghero oppure quello collocato nel pozzo di origine nuragica a Campu ‘e sa Domu a Carbonia - dovrebbero aver fugato i dubbi interpretativi anche tra gli studiosi più tenaci. La frantumazione delle statue, confermata da studi autorevoli[58], sembrerebbe un atto intenzionale, visto che i pezzi sono spezzati negli stessi punti. I frammenti rivelano un intervento sistematico verso collo, gambe, spalle e polsi delle statue probabilmente dettato o legato a qualche credenza religiosa[59] oppure, a detta di altri, risultato di uno scontro inverosimile tra conterranei[60]. Lo scrivente ipotizza che la collocazione originaria delle statue sia stata sull’acropoli di Tharros[61], in quanto questa ospita ancora la pianta di una struttura templare. Oltre al verosimile impianto, sull’acropoli residuano numerosi frammenti in arenaria gessosa con le stesse decorazioni dei frammenti/lucerne di Monti Prama, al contrario della località di rinvenimento, che non mostra invece traccia della presenza di un tempio. La collocazione delle statue deve essere stata sopra basamenti[62] anch’essi in arenaria gessosa. Uno studio autorevole[63], effettuato dal Prof. Massimo Pittau, ne colloca sedici in particolare, ovvero i “pugilatori”, a fungere da “cariatidi”, o meglio “telamoni” laterali, per la trabeazione in legno[64] del tipico tetto templare a doppio spiovente. L’arredo templare si suppone abbellito con le lucerne e le colonne decorate e completato con le otto statue di guerrieri collocate alle spalle della statua indefinita, più grande delle altre, che M. Pittau nella sua opera suppone sia il Sardus Pater. Anche se lo scrivente ha supposto una figura umana governante a rappresentare l’antenato Sardus Pater - come si può verificare che accada nei contesti egei ed egizi - condivide pienamente l’elaborazione del Pittau sull’eroizzazione dell’Antenato. Tale considerazione scaturisce dalle analisi culturali di chi scrive relative al periodo in esame e dalla convinzione che i templi[65] dedicati al Sardus Pater, in armonia con gli scrittori classici, fossero parecchi. Tale valutazione nasce spontanea se si considera che nei centri urbani definibili come città è possibile osservare degli edifici templari collocati, nella maggior parte dei casi, nella zona nord delle necropoli. Questi edifici, interpretati discutibilmente come tophet, restituiscono nello strato più antico elementi quali vasi bollilatte di foggia nuragica realizzati al tornio[66]. Questi edifici riassumono il concetto dell’eroizzazione dell’antenato, celebrato nel penetrale, con la deposizione degli individui attorno al commemorato, tipica di contesti precedenti, come è possibile vedere nella Tomba dei Giganti di S’Ena ‘e Thomes di Dorgali, circondata da fosse terranee successive. E’ corretto poter affermare che tali edifici sono una prerogativa sarda e della Tyrrenide, in quanto sia nel Levantino che nella penisola iberica sono completamente assenti[67], mentre risultano utilizzati in Sardegna già dall’VIII sec. a.C. (Sulky a Sant’Antioco, non necessariamente all’atto di fondazione della cittadina). In merito alla collocazione temporale il Pittau elabora un’edificazione templare più tarda, legata alla sconfitta di Cartagine[68]. Lo scrivente invece elabora un’età più alta per quella in cui prese vita il Tempio del Sardus Pater, individuandola verosimilmente nel periodo della talassocrazia micenea, ovvero delle vicende dei Popoli del Mare, periodo in cui numerosi individui indigeni ebbero la possibilità di occupare elevati ranghi della scala sociale egizia (Guardia del Faraone)[69] o degli stati del Levantino (Guardie a Byblo)[70]. I successi, la particolare benevolenza militare ottenuta (Stele di Tanis – Ramses II)[71], uniti ai contesti di vita cittadini e al tenore di vita all’estero avranno di certo stimolato l’ego dei Shardana. E’ verosimile considerare che, a seguito del rientro in patria dopo alcune campagne militari, i guerrieri abbiano sentito l’esigenza di celebrare gli eroi e le conquiste, contemporaneamente alla pretesa di rendere in patria adeguamenti urbanistici dettati dalle abitudini acquisite all’estero (Karnak – Egitto). Si segnala che in Egitto e non solo le abitudini cultuali stimolavano gli ingegneri a progettare, in contesti celebrativi dei faraoni attorniati dalle tombe della propria corte (simile all’eroizzazione dell’antenato), delle strutture templari. I colonnati ottenuti appaiono sempre costituiti da 8 oppure 16 elementi, come ad esempio a Luxor nel tempio di Amenhotep III nella colonnata processionale[72] oppure a Medinet Habu, nel tempio funerario di Ramses III, sistemato all’interno delle corti delimitate dai piloni riproducenti le battaglie contro i Popoli del Mare[73]. Questa consuetudine è rinvenibile anche localmente analizzando il contesto del vano mediano del Tempio di Antas dove, davanti alle pareti, è possibile osservare otto pilastri con capitelli dorici destinati a sostenere il tetto[74], e dove forse è testimoniata persino la presenza di monumentali[75] gole egizie. Ancora, in ultima analisi, si può citare il tempietto K di Tharros, proposto con fregio di urei, gola egizia e coronato dal segno distintivo della Dea Madre: un toro sormontante il frontone del tempio[76]. In merito alla collocazione delle urne cinerarie in prossimità di queste strutture si possono avanzare due ipotesi: la prima preventiva è che si tratti di individui giovani[77] deceduti a seguito di malattie contagiose e perciò cremati onde evitare contagi; la seconda, ipotizzata dallo scrivente come rituale, tenga conto del fatto che, essendo i deceduti individui al di sotto dell’adolescenza o in procinto di arrivare ad essa, essi non avessero ancora superato il rituale del fuoco. Questo rituale, coincidente con l’attuale festività di San Giovanni, era il passo necessario per entrare nella fase adulta e di pienezza religiosa. Quindi si può supporre che fosse fondata la credenza relativa al mancato passaggio nell’Oltretomba degli individui senza battesimo, un po’ come veniva concepita una non recente credenza cristiana, sul fatto che l’anima dei bimbi deceduti non ancora battezzati non raggiungesse il Paradiso. Pare verosimile pensare che in mancanza di questo ai defunti prematuri venisse forzato un surrogato di battesimo, attraverso la cremazione, affinché l’anima
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