di Marcello Cabriolu
Il culto monoteista più antico del mondo ha lasciato tracce profonde sia sul territorio che nell’animo dei Sardi. Analisi di un rapporto uomo – divinità per molti versi differente da quello moderno.
Il
culto della Dea Madre è testimoniato in Sardegna sin dal Paleolitico. Il
rinvenimento di diverse statuine, in varie località, ci attesta che anche in Sardegna si è manifestato il
culto della divinità femminile considerato tra le prime manifestazioni di
monoteismo al mondo. I rinvenimenti di Macomer, Carbonia, Villamassargia e Cabras,
statuette riproducenti la Dea che accompagnavano il sonno dei defunti nelle
Domus, ci mostrano come, durante il Paleolitico superiore, la Sardegna fosse culturalmente
in linea con l’Europa continentale. I
siti di Dolni Vestonice, nella Repubblica Ceca, e di Willendorf, in Austria,
originavano, quasi contemporaneamente a Macomer (attorno al 24.000 B.P.), una
statuetta di circa 11 cm riproducente una figura femminile dalle forme
abbondanti. Una constatazione straordinaria se si riflette sull’insularità
della Sardegna Paleolitica, descritta come isolata in mezzo al Mare
Mediterraneo, eppure così attiva dal punto di vista culturale e commerciale,
come testimoniano le esportazioni di ossidiana.
L’uomo preistorico aveva intuito l’importanza del ruolo femminile e lo
aveva collocato al vertice della scala cultuale idealizzandolo nella Divinità.
Le prime figure venivano riprodotte con grossi seni e grosse cosce che, incorniciavano
un ventre gravido e perciò fertile, e venivano deposte nelle sepolture
monocellulari. Quasi a rappresentare una “Madonnina” o un crocefisso come
quelli che riceviamo al momento del battesimo, le statuette della Dea dovevano
accompagnare i defunti durante il sonno funerario. La deposizione, nel
Neolitico Medio, degli individui sistemati in posizione fetale all’interno di grotticelle
naturali o scavate, di forma semicircolare, fa supporre la ricerca nella Natura
del grembo divino. Che la ricerca fosse mirata al grembo divino, lo si indovina
tuttora, analizzando il fatto che numerose Domus vennero ricavate in prossimità
- spesso includendole al loro interno - di sorgenti a cui l’onomastica sarda ha
assegnato il nome di orgìa oppure stìdiu. Quest’ultima
mossa pare mirata ad allagare la sepoltura, incrementando l’afflusso dell’acqua
tramite canale collegate con l’esterno. Ingenuamente considerate come vie di
fuga per l’acqua, le canale venivano invece usate per concentrare l’apporto
idrico all’interno della Domus. A questa conclusione sono giunto dopo aver
visto e valutato i dolmen di Giovinazzo in Puglia, sui quali l’archeologo
Ricci dichiara un uso delle canale simile a quello sopra descritto, che in questo
caso addirittura integra la funzione di un foro sulla parte superiore del
dolmen per l’apporto idrico. Ulteriore sostegno ho trovato nell’opera di E.
Atzeni – La preistoria nel Golfo di Cagliari - che sottolinea la costante
presenza di sorgenti d’acqua all’interno delle Domus de Janas. Il defunto in
posizione fetale, l’acqua a riprodurre il liquido amniotico, la tomba di forma
uterina e un piccolo portello quasi a riprodurre un orifizio vaginale: non si
può certo dire che le popolazioni preistoriche non avessero le idee chiare
sull’apparato riproduttivo femminile. Il Neolitico Medio dev’essere stato un
periodo di opulenza dove la Divinità era interpretata come grassa e florida. La
produzione statuaria rinvenuta a Cuccuru is Arrius – Cabras ci dà conferma sulle
forme generose e ci mostra altre caratteristiche: una pettinatura precisa e
marcata a ciocche e trecce (un po’come le nostre nonne) e un viso che diverrà
fondamentale per monumenti, maschere e simbologia. Il viso della dea viene
concepito con due tratti fondamentali: uno orizzontale, evidenziante un’arcata
sopraccigliare ben marcata, e uno verticale, indicate il setto nasale. La bocca appare appena sottolineata o forse si tratta di una piega del mento e gli occhi sono appena intuibili o completamente assenti. Tale stile è osservabile nei pezzi provenienti da Meana Sardo, Muros, Narbolia, Olbia e Cabras. Nel Sud, a conferma di un’estesa continuità cultuale, possiamo citare Villamassargia, Decimoputzu, Santadi dove alcuni stili richiamano le Dee Madri cicladiche ma rispettano tutte quel tabù testimoniato persino nell’Antico Egitto. La statua di Iside velata, custodita nel tempio di Sais, recita: “Io sono colei che era, che è e che sarà sempre. Nessun mortale ha mai scostato il mio velo”, quasi a voler punire l’uomo che ambisse al faccia a faccia con la divinità. Una concezione della divinità come mamma generosa e opulenta, quindi, tuttavia, per l’assenza di sorriso e occhi, intuibile pure come impassibile e austera. Forse la chiave giusta per la conduzione di una vita, quella preistorica, in cui nel quotidiano si dovevano fare i conti con la caccia, le guerre, la vita media inferiore alla nostra, la presenza di particolari malattie inspiegabili (da noi ora conosciute come fastidi comuni) e l’accettazione della morte come un passaggio di stato dalla vita terrena. A conferma di ciò che si intuisce nell’analisi cultuale arrivano dei monumenti insospettabili disseminati per la Sardegna: le facce della Dea Madre. Forse non analizzati nella totalità del complesso sardo, le facce, grosse sculture di pietra superiori ai 3,50 mt di altezza, venivano interpretate come “scherzi della natura” modellati dagli agenti atmosferici e presenti accidentalmente nelle necropoli. Ma ad un’attenta analisi della superficie i faccioni mostrano rigature e incisioni create da scalpelli e sgorbie e quella caratteristica tanto fondamentale nel viso delle statuette. Dalla necropoli di Filigosa – Macomer alla necropoli di Locci Santus – San Giovanni Suergiu alla necropoli di Gruttiacqua – Sant’Antioco oppure alla necropoli di Monte Triei – Dorgali o ancora a quella di Pranu Mutteddu – Goni si sviluppa un vastissimo campionario di “protomi antropomorfe” con un’arcata sopraccigliare ben evidenziata e un setto nasale perpendicolare.
L’analisi simbolica dei “faccioni” potrebbe indurci a considerare che “abbiamo anche noi le sfingi”, ma ciò sarebbe parecchio azzardato, più verosimilmente essa riflette una consuetudine religiosa di uomini proiettati ad un contatto stretto con “Mammai”. Il riprodurre i tratti della dea sopra una necropoli appare, a questo punto, come un gesto propiziatorio oppure di ulteriore pietà versi i propri defunti. Come dire: - “ Mammai kastiri fostei is mortus nostus”.
Bibliografia
“Il Linguaggio della Dea”, M. Gimbutas, Neri-Pozza
“Le Dee viventi”, M. Gimbutas, Medusa
“La Dea Bianca” , Robert Graves, Adelphi
“Le culture dell’Età del Bronzo dell’Europa centrale e orientale”, M. Gimbutas, 1965
“The civilization of the Goddess”, M. Gimbutas, 1994
Giulio Volpe, La Carta dei Beni Culturali della Puglia.
Nessun commento:
Posta un commento