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venerdì 19 agosto 2016

L'Esercito di bronzo - "Perchè siamo un popolo di guerrieri...un popolo di eroi"



di Marcello Cabriolu
L’emergere di aristocrazie o di famiglie, definite arereus e legate allo sfruttamento delle risorse o ai meccanismi di scambio, genera prestigio sociale, rompendo l’equilibrio comunitario e dando origine a nuove forze soprattutto in ambito militare. L’esempio lampante che meglio descrive questo evento lo possiamo trovare nell’analisi dei defunti della Domus di Sant’Iroxi dove, tra i 183 inumati della facies Bonnanaro A2, ne ritroviamo 13 di sesso maschile, indubbiamente guerrieri, il cui corredo era costituito da spade e pugnali[1]. Si evince che all’interno del gruppo familiare solo alcuni individui raggiunsero elevati ranghi sociali tali da poter avere armi da guerra ed esibire armi da parata, mentre circa un centinaio di inumati portavano corredi costituiti unicamente da vasellame seppure di alta qualità. L’archeologo Giovanni Ugas interpreta le sepolture, in cui sono assenti oggetti di lusso quali gioielli e metalli preziosi, come voluta e mirata all’esaltazione dello status di guerrieri, supponendo che tra essi magari si celi un Juyghi, la massima autorità. Secondo lo scrivente invece questa ipotesi svanisce facilmente, in quanto, in virtù dell’esaltazione delle figure di comando, la deposizione di un capo sarebbe stata corredata, oltre ai simboli di potere militare, anche da beni di lusso quali gioielli ecc…, oltre ad occupare una sepoltura megalitica ben più imponente, quale poteva essere una Tomba dei Giganti, oppure un alleé couverte, piuttosto che una più semplice Domus.
Probabilmente è in questo contesto che si crea il processo di privatizzazione della terra attuato anche attraverso forme di colonizzazione o di fondazione di centri secondari, come probabilmente era successo nel Delta del Nilo, quando Ramses III (cfr 4) diede agli Shardana grandi proprietà terriere al fine di assicurare ai soldati un vitalizio successivo alla carriera militare. Nella caratterizzazione dell’esercito appare impossibile non tener conto della produzione bronzistica della Sardegna del XII sec.a.C, così florida e capace di evidenziare varie figure guerriere con le relative caratteristiche. Attraverso un’osservazione attenta e uno studio accurato della bronzistica e delle sue interpretazioni sia tecniche che figurative, lo scrivente è riuscito a tracciare alcune linee guida in materia di vestizione e appartenenza dei soggetti figurati. La bronzistica sarda ricalca alla perfezione l’armamento oplitico, ideato tra i micenei, di cui tuttora abbiamo valide testimonianze nella Roma arcaica solo per riflesso etrusco[2]. Questo armamento, trasmesso dagli etruschi – Tursha ai latini[3], era formato da elmo, corazza o anche corsale, e schinieri di bronzo; scudo rotondo di legno, foderato di bronzo; lancia di legno con puntale in bronzo o in ferro; spadone in ferro o in bronzo, e la micidiale virga sardescha.
Il primo elemento valutabile è l’elmo, descrivibile come fatto di strisce orizzontali di cuoio, coronato da corna lunghe o corte e fissato al capo da fasce passanti sulla nuca, legate sotto il mento e poggiate su spalle e petto, tali da sembrare delle trecce, finora appunto erroneamente classificate come ciocche o trecce di capelli a scriminatura mediana molto larga.
Le varianti rispetto al modello descritto sono diverse e vanno dalla semplice calottina – indossata ad esempio dall’arciere di Sardara con gonnello borchiato - al copricapo con pennacchio - come l’arciere di Urzulei - all’elmo con cresta, ed infine all’elmo piumato, in questo caso indossato verosimilmente da un guerriero Pheleset, come ci mostra la statuetta proveniente da Decimoputzu e interpretata invece come il Sardus Pater. Al modello base provvisto di corna vennero aggiunte decorazioni facciali circolari riproducenti diverse coppie di occhi - come è il caso dei guerrieri quattro occhi e quattro braccia di Abini/Teti e di Padria -  al solo scopo di impressionare e spaventare il nemico, mentre vennero applicati dei guanciali lunghi sino al mento. Lo scrivente sostiene fortemente che le varie tipologie di elmo, legate a differenti tipologie di armamento, siano specifiche non della località di provenienza bensì del gruppo umano di utilizzo.
Esempi pratici sono quelli del bronzetto citato precedentemente legato ai Phelesets, oppure l’elmo conico decorato geometricamente a zanne di cinghiale e proveniente da Teti, calzato da un guerriero con stocco e scudo alle spalle[4] che identifica un Tjekker, grazie al particolare fortuito evidenziato dal portamento del pugnale alla cintura - usanza tipica dei Cretesi[5] - e che trova precisi raffronti con una statuetta d’avorio proveniente da Mitza Purdia di Decimoputzu. Si è già discusso su quale fosse la situazione umana al termine della colonizzazione del Levantino (cfr 4) e su quali fossero gli spostamenti umani legati ai diversi interessi commerciali o di sopravvivenza attorno al XI sec.a.C.,  per ribadire a questo punto quali fossero i gruppi umani micenei presenti in Sardegna e “reduci” del Levantino. Le differenze di elmo - alla luce dell’uso dello stesso armamento come ad esempio possiamo osservare nei “commilitoni” rinvenuti a Teti – mostrano, secondo lo scrivente, i vari individui facenti parte della Lega dei Popoli del Mare instauratisi nel territorio sardo. Lo scrivente, nell’analisi formulata, sostiene inoltre che gli elmi siano legati alla tipologia di soldato e al suo opportuno armamento, affermando perciò che l’esercito si possa dividere in armate pesanti di scarsa mobilità e armate leggere con una notevole capacità di movimento.
Le armate pesanti, costituite da guerrieri “corazzati” con virga sardescha[6] (Senorbì – Teti - Padria) o grande arco pesante (come ad esempio l’arciere custodito a Sant’Antioco[7]), vestono elmi a corna lunghe, e per sopperire al disagio nello spostamento hanno a disposizione pugnaletti o stocchi portatili annessi direttamente al dorso dello scudo. Le armate definite leggere, formate da guerrieri leggeri (come ad esempio il guerriero di Uta), usano invece lo spadone, grazie alla libertà nel poter sguainare e mulinare l’arma senza l’intralcio delle corna, in questo cosa molto corte, protese in avanti e chiuse verso l’interno. Così gli arcieri leggeri con arco a delta presentano la spada media ad elsa biforcuta,come ad esempio quello di Serri, e gonnella Shardana, indossando elmi con piccole corna, rivolte in avanti, per facilitare l’estrazione dell’arma. Tracce storiche delle corazze o corsali Shardana usate nell’Egitto si possono trovare tra le tavolette di Cnosso, che studiate e analizzate da Sir Arthur Evans, descrivono corsali con cinque file di placche di bronzo cucite su una fodera di cuoio e gli spallacci[8] rimovibili, raffigurati con precisione quasi maniacale sia nelle statue menhir di Filitosa in Corsica che nelle fedeli rappresentazioni di Medinet Habu. A dovere di cronaca si riporta il rinvenimento di un corsale a Dendra, a sud est di Micene, costituito da busto e gonnellina congiunte su un lato da una cerniera. Quest’ultimo componente, formato da tre bande orizzontali di metallo, se analizzato, risulta molto più antico delle sopra citate tavolette di Cnosso, e si potrebbe supporre appartenere ad un aristocratico o ad un guerriero scelto[9].
Il corsale, introdotto anche a Cipro nel XII sec.a.C. insieme allo scudo tondo[10], veniva fissato al busto tramite bande sfrangiate posizionate anteriormente all’altezza del bacino - lo stesso punto dove in Sardegna è uso mettere su Muccaroi -, oppure pendenti lungo la schiena, e a cui si fissavano la faretra porta frecce o ancora il fodero della spada. Al corsale, riprodotto anche nella statuaria, vennero sovrapposti altri accessori, che a seconda del bronzetto potevano essere: la bandoliera compresa di fodero, per sistemare su stoccu; il pugnale, distintivo del Juyghi; su corru da richiamo; oppure la sacca porta frecce degli arcieri. Inoltre, integrati sempre al corsale, i guantoni e gli snodi per proteggere gomiti ed avambracci - come è possibile osservare nel guerriero di Padria[11] - o goliere a più anelli per proteggere il collo.
Ci si vuole soffermare ora sulla particolare forma rettangolare presente sul petto degli arcieri, da sempre ostinatamente ritenuta una piastra per la protezione dell’addome o del torace del guerriero. In effetti questa particolare definizione ci appare piuttosto superficiale se si dedica qualche istante all’osservazione accurata dell’oggetto in questione.
A causa delle sue dimensioni, a volte piuttosto ridotte, quest’elemento non è infatti sufficiente a proteggere un individuo da una freccia scagliata anche da distanza notevole. Vista la forma dell’oggetto in esame e la dimensione riprodotta nell’arciere con arco a spalla[12], custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, o ancora in quello orante rinvenuto a Teti[13], e viste le riflessioni di cui sopra, ci appare a questo punto più indicato conferire a quest’oggetto la funzione di sacca contenitore delle punte di ricambio, testimoniate perfino nei ripostigli bronzei tuttora conosciuti. In alcuni individui, chiaramente riconoscibili come guerrieri pesanti, vennero posizionati dei supporti laterali all’altezza delle ascelle, al solo scopo di sostenere gli scudi. Questa elaborazione viene ampiamente sostenuta attraverso le testimonianze della serie di esseri demoniaci rinvenuti a Teti con quattro braccia e quattro occhi[14], i quali pur montando degli scudi a protezione del bacino e busto mantengono ampia libertà, avendo le braccia libere, nell’utilizzo delle armi. La parte inferiore della corazza, ovvero quella che va a coprire l’addome, è spesso ricavata da bande - descritte dagli studi sugli egei come realizzate in metallo[15] - mentre in alcuni elementi questa specie di gonnellino viene riportato come una sorta di arcaico frac dove la parte posteriore si presenta a punta e quella anteriore aperta a triangolo - come è possibile vedere ad esempio nella statuaria di Monti Prama, nell’arciere saettante di Serri[16]  e nel pugilatore di Dorgali[17] - con precisi riferimenti alle sculture del VII pilone del Tempio di Ramses III, in cui il Faraone viene riprodotto mentre combatte contro i Popoli del Mare, schierando nel suo esercito un contingente di Shardana.
Riferimenti a questo tipo di abbigliamento si possono ritrovare ancore nella Tomba del Visir Rechmire, addosso ai messaggeri Keftiu recanti gli Ox-hide di rame. Un elemento tanto vistoso quanto importante è rappresentato, nei bronzetti, dallo scudo rigorosamente circolare, caratterizzato, da nord a sud della Sardegna, da un marcato umbone centrale decorativo ma soprattutto importante dal punto di vista difensivo. Il rinvenimento di decorazioni caratteristiche sulla facciata esterna dello scudo, verosimilmente realizzato in legno a cui vennero sovrapposte dei fogli di metallo, ci aiuta ad individuare, per raggruppamento dei vari fregi e motivi osservabili, un’appartenenza territoriale. A partire dal Nord, il rinvenimento a Ossi (Sassarese) di un soldato con stocco e scudo perfettamente liscio sistemato sulla schiena, ci permette di stabilire che tale decorazione è tipica proprio del gruppo umano stanziatosi nel Sassarese, salvo il rinvenimento di un altro scudo decorato a motivi triangolari umbone centrale e barra orizzontale, custodito al Museo Archeologico di Sassari. La decorazione con motivo cosiddetto a “pintadera” invece accomuna i rinvenimenti - appena differenziati da qualche impercettibile particolare - di Padria (Meilogu), Sorgono (Mandrolisai), Teti (Barbagia Ollollai), Alà dei Sardi (Logudoro), Baunei (Ogliastra), individuando quasi una regione geografica culturalmente omogenea. I rinvenimenti di Senorbì - guerriero con stocco - e di Uta - guerriero con spadone - mostrano degli scudi con una decorazione resa con pannelle circolari a trifoglio e barra orizzontale, rivelando straordinariamente i confini culturali a settentrione e a meridione del Campidano. Questa elaborazione è facilmente sostenibile dalla dimostrazione che basterebbe oltrepassare il Monte Arcosu, ovvero il confine meridionale del Campidano, per scoprire nel rinvenimento di Santadi, nel Sulcis, un guerriero con mano chiusa a cilindro (probabilmente brandiva una spada) e scudo decorato con un bifoglio di pannelle e una banda orizzontale. La protezione degli arti inferiori veniva attraverso gli schinieri, ossia elementi abbastanza semplici che presentano anteriormente una placca probabilmente in bronzo - come quelli prodotti a Cipro nel XII sec.a.C.[18] -, anche con costolatura rinforzante, che segue l’andamento della gamba dal ginocchio fino allo stinco o anche alla caviglia, con la presenza - in alcuni individui -, a scopo offensivo, di rostri, come ad esempio il capo con stocchi e scudo di Teti[19] oppure ancora l’arciere orante di Usellus[20].
A fermare posteriormente gli schinieri compaiono delle fasce, probabilmente elastiche, rese in stoffa oppure in pelle, che cingono il cavo popliteo della gamba e il polpaccio e che vengono chiuse da due fermagli (vedere come esempio i due guerrieri di Uta[21]). Un’unica testimonianza, quella dell’arciere orante di Usellus[22], ci mostra degli schinieri integrali dall’inguine sino alla caviglia. Le armi più diffuse sono generalmente armi bianche scindibili in pugnali, spade corte, spade medie leggere e spade lunghe pesanti[23], create rispettando fedelmente l’unità di misura di 5,5 cm od i sui multipli, misura già verificata in altri contesti per creare forme e stabilire sezioni. Si ritiene doveroso sottolineare che anche a Creta le armi, che ricalcavano le dimensioni delle punte in ossidiana, hanno come base l’unità modulo di 5,5 cm[24]. Le armi rinvenute nella Domus di Sant’Iroxi si presentano fondamentalmente di un unico tipo: a lama triangolare[25], doppio filo e base semplice arcuata e provvista di rivetti per assemblare l’elsa, con precisi riscontri nelle lame della regione di El Argar e  nel Midì francese[26].  Il Vivanet alla fine del 1800 elenca una lunga serie di pugnali e spade di svariati tipi rinvenuti nel ripostiglio di Abini -Teti. Dalla relazione di Ettore Pais[27] su questo deposito di bronzi si evince che oltre alle spade di bronzo votive della lunghezza di 1,30 mt, si rinvennero circa 130 spade lunghe, nove spade a lama quadrangolare, venti pugnali con lama a foglia decorati con motivi geometrici, centoventi pugnali di varia forma e tre pugnali completi di manico in metallo (uno dei quali portava ornato in rilievo un guerriero cornuto), oltre a tantissimi frammenti di spade e pugnali non ricostruibili.
Mentre il rinvenimento del Taramelli, datato Gennaio 1915, mostra tredici else di spade, cinquantuno frammenti di spade e due pugnali a lama triangolare con fori per i rivetti, oltre a una cinquantina tra accette, falci e scalpelli ad uso agricolo ed estrattivo. I pugnali, “is stoccus”, come i simili fabbricati a Creta[28] , hanno forma triangolare, una base tonda e larga e fori per i ribadini. Questo tipo di arma venne presto sostituita dai pugnali a foglia di salice con codolo, anche a uncino, e lama a nervatura mediana testimoniati sia a Ottana, Gonnosnò[29] che a Creta[30]. Simboli di potere e insegna dei Juyghi, vengono portati, fissati alla bandoliera, all’altezza del petto, in contrapposizione all’abitudine degli egei che li portano alla cintura[31].
La bronzistica ci indica due tipi di arco in possesso dell’esercito sardo: uno semplice e uno bilobato rettangolare composito. Se il primo poteva trovare applicazioni anche nella vita quotidiana - come per esempio nella caccia - il secondo, viste le dimensioni notevoli, doveva essere sicuramente un’arma parabellum, probabilmente realizzata da legni  rafforzati con cheratina di corna di muflone. E’ testimoniato, per il momento solo attraverso la bronzistica, l’uso di frecce provviste di penna direzionale, a differenza dei giavellotti testimoniati non attraverso l’arte figurativa ma dal reale rinvenimento di teste di lancia con cannone ottagonale.
Secondo lo scrivente questa elaborazione pare modesta se raffrontata alla complessità sia delle strutture abitative in sé sia dei centri rurali che di quelli urbani. Una struttura sociale specializzata, all’interno della quale si svolgono diversi mestieri resi alla fruizione pubblica, manifesta sempre la necessità di figure professionali che si occupino di mantenere l’ordine e regolino la vita civile, curino l’approvvigionamento annonario e la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici. In un contesto sociale come quello sardo si può affermare che per la complessità sociale e la specializzazione degli individui ci fosse l’esigenza collettiva di figure che soprintendessero ai servizi appena citati. Naturalmente nell’adempimento di tali compiti è d’obbligo individuare diverse figure: quelle dirigenti e quelle eseguenti e non è inverosimile ipotizzare che a questo compito concorressero anche le “forze armate” del Bronzo Medio, esattamente come accade al giorno d’oggi, in cui le attuali forze armate intervengono anche nelle missioni di pubblico interesse.
Ancora, la bronzistica non ci testimonia né alcuna figura portatrice d’ascia nè figure di frombolieri, nonostante all’interno di alcuni nuraghi siano stati rinvenuti parecchi elementi in pietra interpretati dagli archeologi come fromboli per fionda[32]. Nella Roma arcaica o verosimilmente nel contesto del Bronzo Recente e Bronzo Finale, i magistrati o Lucumoni etruschi, che abbiamo già identificato come Sardi nei capitoli precedenti, strutturarono l’esercito in gruppi da 100 fanti e 10 cavalieri per curia creando così la base dell’esercito imperiale. E’ verosimile applicare questo modello all’esercito sardo in quanto le esperienze militari dei Tursha provenivano, come già anticipato, dalle elaborazioni strategiche dei Popoli del Mare a cui attingevano anche gli Shardana[33]. Alcuni studiosi, tra i quali il Prof. Giovanni Ugas, elaborano invece una diversa configurazione militare più modesta, come limitata al cantone e dettata forse dalla forma politica concepita sinora, individuando unicamente contingenti formati da circa 90 individui, che alternandosi in ore di servizio e di riposo coprivano l’intera giornata vigilando sui bastioni e sugli ingressi di ciascuna Reggia[34].




[1] G. Ugas, La Tomba dei guerrieri di Decimoputzu, Della Torre, Cagliari 1990, p.130
[2] G.Geraci, A. Marcone, Storia romana, Le Monnier Università, Firenze 2004, p.61
[3] F. Cassola, L’organizzazione politica e sociale della Repubblica, in A.A.V.V. (a cura di), Roma e l’Italia. Radices Imperii, Collana Antica Madre, Garzanti Scheiwiller per Credito Italiano UTET, Milano 1981, p. 5
[4] G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, Ilisso Edizioni, Nuoro 2008, p. 253, fig. 95
[5] G. Glotz, La civiltà Egea, Einaudi, Torino 1980, p.84
[6] A. Demontis, Il Popolo di Bronzo, Condaghes, Cagliari 2005, p.64
[7] M. Cabriolu, Bronzetti: un attribuzione difficile in “Làcanas”, 41 (2009), p.32
[8] L.R. Palmer, Minoici e micenei, Einaudi, Torino 1969, p.147
[9] Palmer, Minoici e micenei, p.150
[10] Glotz, La civiltà Egea, p.79
[11] Demontis, Il Popolo di Bronzo, p.78
[12] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.154, fig.32
[13] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.148, fig. 26
[14] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.270-283, fig.104-105-106-107-108-109-110
[15] Palmer, Minoici e Micenei, p.150
[16] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.140, fig.21-22-23
[17] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.197 fig. 64
[18] Glotz, La civiltà Egea, p.79
[19] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.250, fig.94
[20] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.263, fig.100
[21] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.125-127, fig.11-12
[22] Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, p.263, fig.100
[23] Ugas,  La Tomba dei guerrieri di Decimoputzu, p. 111
[24] Glotz, La civiltà Egea, p.81
[25] Ugas, La Tomba dei guerrieri di Decimoputzu, p. 108
[26] G. Ugas, L’Alba dei Nuraghi, Fabula, Cagliari 2005, p.143
[27] E. Pais, Bullettino Archeologico Sardo, serie seconda, anno I, fasc.V-VI, Tipografia Editrice dell’Avvenire di Sardegna, Cagliari 1884, pp. 72-74
[28] Glotz, La civiltà Egea, p.84
[29] Ugas, L’Alba dei nuraghi, p.193, tav.76
[30] Glotz, La civiltà Egea, p.84
[31] Glotz, La civiltà Egea, p.84
[32] Ugas, L’alba dei nuraghi, p.244
[33] Geraci, Marcone, Storia romana, p.61
[34] Ugas, L’Alba dei nuraghi, p.244

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