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martedì 4 ottobre 2016

ArcheOlbia - Il pensiero religioso nella Sardegna dei Nuraghi



di Marcello Cabriolu
Ph: M.Cabriolu e Internet

La Sardegna del Bronzo Medio manifesta inequivocabilmente, attraverso diverse caratteristiche, un culto monoteista di radicata origine paleolitica colmo di affinità con le culture che hanno vissuto le vicende legate alla talassocrazia micenea o dei Popoli del Mare. La divinità celebrata era la Dea Madre, figura di antica tradizione simboleggiata da un toro, da una colomba[1] o anche da un’ascia bipenne, verosimilmente identificabile con la Grande Madre mediterranea, con la Dea Madre epigravettiana del centro Europa e ancora con la dea greca Demetra, e a cui successivamente venne aggiunto il culto del figlio, il Sardus Pater, ovvero l’Antenato eroe.
E’ doveroso precisare che i simboli religiosi - come ad esempio lo scettro e la bipenne - conosciuti e utilizzati guarda caso anche dai Tursha, diventeranno in epoca romana dei simboli di potere caratteristici degli assetti repubblicani, nonchè attributi del magister romano, o ancora ornamenti del trionfatore[2]. Essi andranno così a rispondere pienamente alle esigenze culturali romane o meglio a creare, partendo da un contesto a noi nostrano, i fondamenti della repubblica di Roma. Si è avanzato che il Juyghi regnante si autoproclamasse come il discendente sulla terra del Sardus Pater, l’Antenato eroe, figlio della Dea Madre. Tale elaborazione trova riscontro preciso nei regni egei, dove i sovrani micenei, autocelebrandosi come figli di Potnia  e definendo se stessi Dio-figlio sulla Terra[3], assolvevano alle funzioni sacerdotali della Dea Madre.
Ancora riscontri precisi e considerazioni simili si possono trovare tra i re della XI dinastia di Tebe in Egitto, i quali si vantavano di essere i figli della dea Mut – la “Madre” - associata al dio Montu[4]; oppure ancora nella Roma arcaica e in quella Repubblicana di profonda cultura Tursha, dove esistevano residui monarchici quali i rex sacrorum[5], ovvero i sovrani - sacerdoti più importanti. Questa concezione cultuale non rappresenta certo una novità visto che i micenei, che in precedenza abbiamo già individuato come i Popoli del Mare, già identificavano in Anatolia e nella Penisola greca una figura femminile denominata “Wanassa”, dal significato di Regina o Dea Madre, legata al giovane Dio, suo figlio e sposo e compagno, il “Wanax”, che muore e risorge, e che in molte lingue portava il titolo di “Re” oppure “Signore” oppure ancora “il Capo” (per es. Adone – Aton)[6]. Legati a queste figure religiose si possono citare delle celebrazioni particolari quali la “festa di primavera” e la “festività dei morti”. La prima di queste, corrispondente al primo di maggio con precisi riflessi nella Creta del Medio Minoico II[7], culmina con la celebrazione della preparazione del giaciglio per l’unione tra la Dea Madre e il Figlio risorto, mentre la seconda, sviluppata su tre giorni, era caratterizzata oltre che dalla commemorazione dei defunti anche dall’apertura degli otri del vino novello[8], abitudine tra l’altro ancora di largo uso in Sardegna.
Sempre in relazione alla prima festività si può dichiarare che in alcune parti del Mediterraneo, Sardegna compresa - come ad esempio accadeva ad Ozieri - si svolgevano particolari rituali di fidanzamento, tramite la scelta di pani[9]. In occasione di questa celebrazione si usava ungere le pietre angolari dei templi, rituale che poi si è adottato nelle celebrazioni del mese mariano e nei rituali cristiani e musulmani[10], e che viene ricordato, per i tempi più remoti, come officiato da parte delle vergini sul menhir “Sa Frissa” di Ortueri[11]. Il rapporto tra Dea Madre e Dio figlio e sposo è un concetto religioso conosciuto e rispettato persino nell’Antico Impero Egizio dove Mut, definita anche Hator o Neith, generò Horo, il figlio fecondatore, conosciuto anche come Khnum[12].
Nella teologia egizia la figura di Khnum, essere dal corpo umano e testa di ariete, rappresenta l’acqua fecondante, forse in stretta relazione con la decorazione del bagno termale di Sedda sos Carros di Oliena, dove i getti dell’acqua sono abbelliti con delle protomi d’ariete. Le affinità della Sardegna con il Levantino e il regno egizio trovano ulteriore testimonianza nella figura di Min, divinità rappresentata itifallica, in onore del quale veniva rappresentata la festa del raccolto, che in accordo con la produzione bronzistica sarda può essere accostato al Danzatore orgiastico con launeddas rinvenuto a Ittiri[13]. Alla voce “Demetra” l’enciclopedia multimediale Wikipedia riferisce che si tratti della divinità indoeuropea denominata Dea Madre - Dheghom mater, che nel culto greco rappresenta la divinità del grano e dell’agricoltura identificabile come artefice del ciclo della nascita, della vita e della morte[14]. Nel culto romano viene identificata come Cerere e viene spesso confusa con Gaia, Rea, Lusia - ovvero la divinità delle acque (Pausania 8.25.8) - o ancora Cibele. Quest’ultima, conosciuta anche come Mater Magna, viene rappresentata seduta in trono affiancata da due leoni. Se ne può trovare  una sua celebrazione in un sesterzio databile al 160 d.C., che riporta nel dritto Faustina minore. Si suppone che le uniche figure relitti della schiera sacerdotale del Bronzo Medio siano ora femminili e che vengano rappresentate dalle Janas accabbadoras, o meglio riassunte come sacerdotesse della morte[15], ovvero quelle figure credute in possesso di capacità curative e conoscenze chimico – botaniche e arti magiche che spesso assistevano durante i parti e accompagnavano nella morte.
E’ verosimile pensare che la Jana accabbadora si occupasse di effettuare il rituale del lavaggio e l’unzione[16] del defunto nel pozzo sacro e che in questa sua funzione essa fosse assistita unicamente da donne, in quanto tale usanza si è protratta sino ai giorni nostri impedendo in maniera ferrea che qualsiasi individuo maschio partecipi o supporti il rituale funerario. A questo punto è doveroso segnalare che nella Creta minoica le Nereidi, riconosciute come fate, operavano nelle fonti sacre o nelle “Case delle Fonti tagliate nella roccia”[17], accostabili al tempio a pozzo di Su Tempiesu – Orune. Intanto si può affermare che della Dea Demetra appaiono tracce nelle scritture in lineare B di epoca micenea presenti a Pilo – Grecia e a Creta. Dopo aver imbastito il contesto culturale e cercato di definire le figure principali, nonché aver accennato a quelle che erano le manifestazioni della divinità in seno alla Lega dei Popoli del mare, si indagano ora gli aspetti  tipici nazionali sardi, in cui le rappresentazioni della divinità del Bronzo Medio risultano limitate esclusivamente alle statuette bronzee - nelle quali la Dea Madre porta in grembo un capo, verosimilmente il Sardus Pater - e alle figure scolpite sulle stele funerarie. Nasce spontaneo chiedersi il perché di così pochi elementi rappresentativi della Divinità alla luce della consistente e massiccia rappresentazione in epoca Neolitica e Calcolitica. Sin dal Paleolitico superiore la cultura materiale sarda ha prodotto piccole statuette in stile volumetrico di individui femminili, come ad esempio quella di S’Adde di Macomer e quella di Cannas di sotto di Carbonia. Durante il Neolitico Medio questa cultura è esplosa in numerosissime località, quali Cuccuru S’Arriu di Cabras, oppure Cungiau de Marcu di Decimoputzu, oppure ancora Santa Mariedda di Olbia, Corongiu Acca di Villamassargia e Monte Meana di Santadi, presentando statuette a tutto tondo, come quelle rinvenute in località Polu di Meana Sardo, o anche a placchetta cruciforme, rinvenute in località Turriga di Senorbì o a Portoferro di Sassari. Insomma un campionario semplice e omogeneo distribuito in lungo e in largo per la Sardegna, segno di un’unica cultura omogenea e profondamente radicata sul territorio. La manifestazione di adorazione della divinità continua nel Neolitico Recente attraverso i circa 400 Menhirs aniconici appena sbozzati sparsi in tutta la Tyrrenide. Dai menhirs di Is Cirquittus di Laconi a Su Para di Monte Idda di Decimoputzu, da Luxia Rabiosa di Villaperuccio a Su Para e’ sa Mongia di Sant’Antioco, da Monte d’Akkoddi di Sassari a Filitosa in Corsica, le pietre fitte, di statura differente, presentano sezioni e forme diverse che sembrano legate alla collocazione geografica. Le pietre fitte di prospetto ogivale e di sezione piano - convessa oppure concavo – convessa, come Montarveddu I a Sant’Antioco e Noth Bilbster in England, o quelle con sezione a pilastro ed emiciclo, come Montarveddu II e Su de Burruccellu sempre a Sant’Antioco, o ancora Danthinelong Pierre – Terre de Durbuy in Francia, collocate fronte ai quadranti orientali in prossimità di sentieri, vengono descritte come celebranti l’Antenato, ma spesso questa supposizione non trova fondamento. Se una destinazione d’uso religiosa e celebrativa si può supporre per i menhirs collocati sugli stradelli conducenti alle aree funerarie, non si può avanzare la stessa ipotesi per quelli sistemati all’interno di cromlech o lungo le vie di comunicazione, che invece fungono rispettivamente da collimatori per l’osservazione astronomica o da miliari stradali, e che quindi si trovano completamente svincolati da qualsiasi concetto religioso.
La funzione celebrativa e fertile della Divinità invece viene espressa attraverso il rapporto dell’uomo con la Terra, definita come Madre, e il suo seme: l’acqua. Si è spesso erroneamente dichiarato che i culti della nazione nuragica siano stati vari in quanto si è spesso stati incapaci di riconoscere che il culto della Madre Terra è sempre stato uno e unico e tutti gli eventi altro non siano stati altro che rituali ad esso legati, proprio come lo sono quelli attuali relativamente al culto cattolico, almeno nel contesto sardo, ancora di profonda radice neolitica. L’inumazione dei defunti, non ancora testimoniata in terra sarda in epoca paleolitica, è basata su rituali ben precisi che si protraggono da epoche arcaiche sino ai giorni odierni.  La Terra è concepita appunto come il ventre gravido della Dea Madre e nella terra vengono scavati gli ipogei, prima monocellulari poi pluricellulari, che ricalcano l’utero materno. Lo scavo degli ipogei è spesso testimoniato in prossimità di sorgenti definite in Limba “stidius” o “mitzas” oppure orxjas, e nel caso di assenza di acqua, essi sono dotati di canalette per la concentrazione dell’acqua piovana[18], caratteristica questa che trova precisi riscontri sia nelle Domus de Janas pluricellulari che nei sepolcri dolmenici, sia che questi si trovino nella Tyrrenide sia in altre località del Mediterraneo, quali Pantalica in Sicilia oppure Giovinazzo in Puglia. Nella cella allagata, quasi a riprodurre il liquido amniotico, veniva deposto in posizione rannicchiata o fetale il defunto, non senza prima aver subito appositi “trattamenti” al fine di limitare la corruzione della morte e auspicare la rinascita verso un’altra “vita”.
La morte di un individuo ancora scatena delle procedure, isolate ad alcuni contesti sardi ancora fortemente legati alle tradizioni, “necessarie” affinché vengano limitate le conseguenze nefaste di un così grave evento. Dal lavaggio operato esclusivamente dalle donne, testimoniato nella zona di Nurri, alla vestizione del defunto con abiti e scarpe affinché possa attraversare comodamente ed elegantemente l’Oltretomba, alla deposizione di oggetti cari al defunto all’interno della bara, il culto dei morti reca ancora in Sardegna tanti retaggi culturali di antica data. In un riassunto sintetico dei rituali funerari operati sin dalla notte dei tempi possiamo individuare il lavaggio del defunto, operato anticamente dalla jana nel pozzo sacro (come ad esempio avveniva a Matzanni – Vallermosa - un insieme singolare di tre templi a pozzo - almeno sino al IV sec.a.C.), con riscontri profondi nelle pratiche operate dalle già citate Nereidi cretesi oppure nelle pratiche rituali officiate dai sacerdoti egizi nella preparazione dei defunti per l’imbalsamazione.  Studi accreditati ipotizzano che i defunti preistorici venissero esposti alla luce solare prima della tumulazione, in particolari aree dove, si è supposto, i cadaveri potessero essere scarnificati. Tale ipotesi genera parere contrario nello scrivente che non riesce a giustificare un tale trattamento alla luce dei rituali ben precisi e amorevoli resi nei confronti dei defunti. Forse qualche studioso aveva già intuito che la deposizione nell’acqua avrebbe portato alla corruzione dei corpi e dalle analisi sui resti rinvenuti aveva supposto che addirittura i corpi avessero subito una sorta di semicombustione. Di questa elaborazione lo studio di Giovanni Ugas, sul rinvenimento di Sant’Iroxi di Decimoputzu, pone in dubbio l’effettiva validità[19], riconoscendola infatti come fuori luogo e fuori contesto rispetto a quella che è la pertinenza cronologica e culturale. Analisi recentissime hanno rivelato una componente minerale molto forte in alcuni templi a pozzo e rinvenimenti personali hanno rivelato la presenza di bacili o di catini in prossimità dei contesti funerari, suggerendo, visto il materiale di deposito sui bacili, che i corpi potessero subire per diversi giorni lavaggi a base altamente salina con prodotti quale il natron, tenendo presente che nell’Antico Egitto i rituali di imbalsamazione duravano circa quaranta giorni. Tale metodo avrebbe permesso un disseccamento maggiore del corpo trattato, lasciando peraltro tracce simili ad azioni di combustione, adatto alla fase successiva di deposizione del corpo in un contesto umido. 
Alla luce di questa elaborazione  è venuto spontaneo accostare a paragone di quello sardo il rituale egizio per dimostrare gli stessi effetti rinvenuti sui cadaveri e per suggerire il rapporto culturale intimo con l’elemento acqua e le marcate affinità di rituali operati da parte di popoli, quali l’Egitto e gli Shardana, venuti a contatto per lunghi periodi. Il legame tra defunto e acqua viene riproposto anche nelle tombe dei giganti (Bidistili – Fonni), dove i morti venivano adagiati su un vespaio di ciottoli fluviali[20], quasi a rievocare il rituale della nascita nel grembo divino, con affinità marcate alla naveta di El Tudons – Ciudadela di Minorca, dove vennero usati per il rito ciottoli marini. Labili esempi di tale antico retaggio rimangono ancora in centri come Bosa, dove sotto il letto del defunto, o sotto la bara, venivano posti, sino a poco tempo fa, catini con dell’acqua e una chiave, verosimilmente per aprire e chiudere la porta del regno dei morti. E’ testimoniato in numerose località, che il defunto, o l’individuo prossimo al trapasso, venisse adagiato sopra il “lettu de campu”, un pagliericcio adagiato in cucina presso il focolare[21], con i piedi rivolti verso l’uscio, pratica che richiama antiche credenze legate alla permanenza delle anime degli antenati in prossimità del focolare domestico. Una piccola contraddizione appare nell’analisi del rituale dell’estrema unzione, sulla quale memorie recenti dichiarano che a questa non dovessero assolutamente assistere le donne, usanza che contrasta con il ruolo assunto in epoca preistorica dalla jana del tempio a pozzo e probabilmente generatasi a seguito di una sorta di proibizionismo esercitato dalla religione cristiana nei confronti delle figure femminili, un tempo cultualmente molto più attive di adesso. Nello svolgimento dei rituali funerari assume un ruolo importante “s’ammentu”, ovvero la confessione dei peccati, adoperata, in assenza della figura religiosa preposta a tal compito, dal familiare più anziano[22]. Successivamente all’accertamento del decesso si procedeva alla composizione del defunto tramite le già citate operazioni di lavaggio e vestizione, da officiare esclusivamente ad opera dei parenti stretti del defunto, con l’usanza, individuata nella località di Cortoghiana, di sciogliere i nodi da tutti gli indumenti del deceduto, comprese le scarpe, a simboleggiare la liberazione dai legami con la vita terrena.
Il rituale funebre assumeva quindi carattere pubblico con l’intervento, ad opera esclusiva della pia carità, delle attittadoras, ovvero delle piangenti. Queste, generalmente in numero di nove, si sistemavano sedute per terra in cerchio formando, attorno alla salma, “sa roda” e iniziando la veglia intonavano “su teu” o “attittu”, il canto funebre celebrativo del coraggio e delle doti del defunto[23]. Tale usanza richiama fortemente precisi contesti funerari quali quello di Pranu Mutteddu  a Goni o di Gruttiacqua a Sant’Antioco dove, negli estremi pressi delle Domus de Janas, venne eretto un circolo di nove macigni ortostatici verosimilmente riflettente sa Roda appena citata. Una delle credenze legate alla morte di un individuo di sesso maschile celibe era che questi potesse tornare dall’oltretomba per portarsi via una donna al fine di tenerla come compagna nell’aldilà. Per evitare che ciò accadesse, soprattutto per proteggere da eventuali disgrazie le donne della famiglia, veniva inserita all’interno della bara “sa pippia ‘e pannu”, una sorta di bambola che potesse sostituire la femmina in carne ed ossa nel viaggio del defunto verso l’oltretomba. Nonostante sia ferma convinzione dello scrivente che la statuetta deposta nelle Domus rappresenti la Dea Madre, questo esempio è stato citato apposta per invitare il lettore a confrontare la presenza degli oggetti votivi negli ipogei con l’uso de sa pippia ‘e pannu, rivedendo magari in questo rituale l’eventualità di un retaggio preistorico. Con la deposizione degli individui in postura fetale, sia nella domus che nella tomba dei giganti - in una prima fase con la testa verso il portello e il viso verso E e in una seconda fase con i piedi verso il portello sempre con il viso verso E[24] -, si conclude l’analisi che vuole la sepoltura come la ricostruzione del grembo materno, ovvero dell’utero della Dea. Alla celebrazione del funerale detto “s’interru” seguiva “s’acconnortu”, cioè la cena o il pasto in genere che veniva offerto a quanti avevano partecipato al dolore per la dipartita[25] dell’estinto. In alcune località del Sulcis Iglesiente è testimoniata la preparazione del pane “su coccoi” e de “is pabassinas”, elementi di forte richiamo betilico. Questi prodotti, rigorosamente fatti in casa proprio per la circostanza, vennero proibiti - in particolare il pane di “coccoi” - a causa di preconcetti legati al cristianesimo, il quale vedeva come legate al demonio le forme “cornute” dell’impasto. In ultima analisi viene riportata l’usanza di commemorare i defunti con la realizzazione de “sa lantìa”, ovvero la lampada, una sorta di lumicino colmo d’olio su cui galleggiava “sa mariposa”, un supporto fatto di latta e sughero nel cui foro, a contatto con l’olio, passava uno stoppino. L’analisi di questa pratica suggerisce nello scrivente un forte richiamo alle figure definite votive - in virtù di alcuni studi - delle navicelle bronzee. Nonostante la creazione delle navicelle sia, a detta di molti studiosi, una prassi dettata dalla credenza che l’anima del defunto potesse giungere nell’Oltretomba attraverso quel mezzo, il confronto di questi oggetti con la pratica funeraria ne suggerisce fortemente un uso quali lucerne funerarie.
Per meglio spiegare questa funzione è doveroso citare il fatto che nella creazione della navicella, al fine di condurre l’anima attraverso gli inferi, gli egizi immaginavano appunto la presenza di una fiamma accesa a simboleggiare l’anima del defunto. Attorno a questa fiamma, come appunto viene testimoniato nel Libro dei Morti Egizio, andavano a sistemarsi tanti animali simboleggianti la Dea quali cervi, colombe e arieti, la cui immagine ci suggerisce il complesso di animali sistemati sulle sponde di una navicella nuragica. Dopo aver cercato di descrivere e interpretare alcuni dei rituali funerari tuttora in uso in Sardegna, appare scontato e giusto definire il presunto culto dei morti come un insieme di rituali di sepoltura tradizionalmente legati ad un unico culto per la Dea Madre. Riprendendo l’analisi del culto, sulla base di valutazioni legate alle rappresentazioni, si può notare che in contesti databili dall’Eneolitico al Bronzo Antico, le rappresentazioni della Dea calano sensibilmente. Gli studiosi accreditati propongono la comparsa dei menhirs antropomorfi - quali quelli rinvenuti nel Sarcidano e nel Mandrolisai - come causa di questa scomparsa, interpretati come divisi in tre registri e la sostituzione, nelle Domus de janas, della protome taurina con l’uomo capofitto[26]. I registri o settori delle statue menhir vengono interpretati come: il volto stilizzato della Dea nella zona superiore; l’uomo capofitto o deceduto nella zona centrale della statua e il simbolo del potere, quale il pugnale l’ascia o lo scettro, nel registro inferiore. L’interpretazione esposta appare consolidata negli ambienti scientifici, ma lo scrivente, a dovere di cronaca, intende proporre delle varianti non ipotizzate finora sebbene testimoniate in altri contesti quali quelli siciliani del Cozzo Busonè a Raffadali, dove due venerette mesolitiche realizzate da ciottoli fluviali suggeriscono informazioni differenti. La Venere rinvenuta nel pozzetto B16, di cui sono ben differenziati il viso, il busto e gli arti inferiori, presenta delle parti decorate in ocra rossa. Dall’osservazione del busto scaturisce la forma precisa del seno a cui è avvicinato l’ombelico, creando una composizione che analizzata in contesti differenti, senza avere come punto di riferimento gli arti inferiori, potrebbe essere considerata il simbolo dell’uomo capofitto[27].
Sulla base di questa analisi lo scrivente invita ad una rilettura dei simboli scolpiti sia sul registro centrale delle stele menhir che sulle pareti della Domus Branca di Moseddu a Cheremule, suggerendo un’interpretazione di questi come la rappresentazione dei seni della divinità - addirittura in alcuni casi circondati dalle braccia -, come già suggeriscono le statuette funerarie neolitiche.  Come precedentemente annunciato, all’incirca verso il 2000 a.C., le varie rappresentazioni della divinità sia antropomorfe che zoomorfe, scompaiono quasi completamente in contemporanea allo sviluppo di un nuovo tipo tombale definito allée couverte, ampliato successivamente in Tomba dei giganti (cfr 5.4).  Non staremo qui a disquisire sui contesti funerari già trattati precedentemente ma useremo questa specie di spartiacque culturale per definire una fase transitoria da una cultura esclusivamente matriarcale ad una con appena percettibili influssi maschilisti. Si è preannunciata la scomparsa delle statue menhir e dell’iconografia della Dea Madre per osservare la comparsa di elementi conici definiti betili, raggruppati a gruppi di tre o anche di cinque elementi, che caratterizzano alcune aree funerarie. Tali elementi, come quelli rinvenuti a Tamuli di Macomer, possono presentare coppie di bugne, interpretate come seni, ed essere identificati quindi come figure femminili. Si è già proposto l’accostamento delle triadi betiliche con figure femminili affini alle Parche o alle Janas (cfr 5.4), sottolineando che alcune di queste presentano, nel registro superiore, delle incisioni glandiformi, quasi a rappresentare in un’unica figura il femminile e il maschile allo stesso tempo, come è il caso di figure bronzee più tarde (XII sec.a.C.) riprodotte itifalliche eppure dotate di seni. E’ doveroso sottolineare che quasi contemporaneamente a questi cambiamenti culturali il gruppo umano in questione, ovvero quello Sardo-Shardana, entra di prepotenza sulla scena politica del Mediterraneo Orientale partecipando da protagonista (cfr 4) a particolari eventi bellici e ricevendo in cambio gratificazioni e incarichi di prestigio. Non è inverosimile considerare che i particolari eventi bellici abbiano fatto leva sulla coscienza popolare sino a portarla a creare e a celebrare dei miti e degli eroi, in virtù del fatto che gli stessi accadimenti hanno fatto scaturire le stesse reazioni sia nella Penisola Greca, nei miti cretesi e in quelli egizi. Non a caso le forme tombali assumono, durante il Bronzo Medio, il Bronzo Recente e il Bronzo Finale, carattere di monumentalità quasi celebrativa - in piena corrispondenza con le strutture funerarie e monumentali egee - mentre le manifestazioni betiliche, attraverso i betilini, assumono una forma di surrogato delle antiche statue dell’Eneolitico. Con uno sguardo alla cultura materiale l’osservatore attento non potrà fare a meno di notare che, dando valore cento alla totalità della bronzistica sarda, solo una bassa percentuale rievoca la figura della Dea Madre con in grembo il Sardus Pater (Sa Dom’e s’Orku di Urzulei)[28], mentre un’alta percentuale riproduce guerrieri e capi.
L’interpretazione delle opere rimane ancora dubbia, nonostante i numerosi studi condotti in merito, a tal punto da definire alcuni guerrieri - come ad esempio il guerriero quattro occhi e quattro braccia rinvenuto a Abini-Teti - come delle divinità. Se un’interpretazione del genere fosse verosimile, si potrebbero riconsiderare anche quei pochi elementi della bronzistica sarda riprodotti a cavalcioni di bovidi (Nuraghe Orcu – Nulvi)[29]. Essi infatti appaiono molto simili a rappresentazioni della Dea in ambito egeo o in ambito egizio, e a  maggior ragione aiutano nel sostenere una messa in secondo piano della figura femminile per un’esaltazione di quella maschile, con pieno sincretismo religioso con l’attuale religione cristiana. Pare doveroso adesso citare la situazione religiosa che si viene a creare con la fondazione dei supposti tophet, già discussi come templi del Sardus Pater, in quanto questi vedono accompagnati dalla comparsa dei cippi funerari, definiti stele, con decorazioni grossolane, che a rigor di logica dovrebbero invece pian piano assumere carattere di precisione e ricchezza di particolari artistici. Gli esemplari a confronto vanno da una stele ad incisione, datata II sec.a.C., del tophet di Monte Sirai[30], che riproduce una figura umana talmente semplice che sembra graffitata da un bimbo, ad una con triade betilica sormontata da disco solare e crescente lunare[31], più rifinita della precedente, datata IV sec.a.C. e rinvenuta a Nora, sino ad un esemplare con gola egizia sormontata da aurei soprastanti Horo[32], con figura femminile. Per quanto riguarda quest’ultima stele – della quale gli archeologi Ferruccio Barreca e Piero Bartoloni cercano di stabilire la provenienza[33] - le rifiniture sono addirittura eccellenti, nonostante la datazione sia la più alta fra quelle finora prese in esame, ovvero il V sec. a.C.[34]. Questa elaborazione storica parrebbe meno sgangherata e imprecisa se venisse rivista e ridatata, soprattutto alla luce di quelle che erano le capacità scultoree di un gruppo umano capace di creare, nel Bronzo Recente, opere di alta qualità artistica, quali i pozzi sacri di Santa Cristina di Paulilatino o di Predio Canopoli di Perfugas, oppure ancora le statue di Monti Prama di Cabras. Soprattutto questa comparazione ci servirebbe forse a capire perché nel Bronzo Medio non siano riconosciute le raffigurazioni divine e quindi a collocare le stele più arcaiche e imprecise in questo periodo. Tralasciando per un attimo le testimonianze fittili e monumentali di interpretazione cultuale, pare doveroso citare i rituali considerati pagani, eppure tuttora celebrati attraverso la religione cristiana, per individuare quelli che erano i rituali arcaici.

E’ abitudine, in territorio sardo e non solo, celebrare le maggiori festività religiose con l’accensione di fuochi: ne è un esempio la festa di San Giovanni, caratterizzata da una sorta di gara tra giovani i quali, a piedi uniti, si sfidano nel salto del fuoco. Tale abitudine appare subito come la celebrazione di un rituale d’iniziazione dei giovani alla fase adulta della vita e trova precisi riscontri celebrativi e comportamentali nella Catalogna e nel Midì Francese, regioni culturalmente e storicamente legate alla Tyrrenide (cfr 4)[35]. Naturalmente i rituali della celebrazione di San Giovanni prevedono che dopo il rituale del falò si completi la cerimonia - come accade ad esempio a Mores - con il bagno nel fiume, e successivamente con lo svolgimento, attorno al grande Fuoco, de “su ballu tundu”, antico ballo sardo di corteggiamento. Se poi a questa nota si aggiunge l’informativa che la Chiesa sarda più volte ha tentato durante i secoli di vietare questi rituali, abbiamo un’ovvia dimostrazione di quanto la Chiesa avesse timore di uno dei principali riti della religione arcaica, così profondamente radicata nell’Isola. Si è parlato di culto, ma in virtù del fatto che si stia trattando di un popolo con profonde tradizioni marinare, è facile comprendere quanto sia riduttivo limitare il discorso religioso solo alla terraferma. La testimonianza religiosa relativa alla Sardegna del Bronzo Medio, infatti, appare chiaramente anche in prossimità degli scali marittimi, dove persistono strutture dedicate alla Dea Madre, esattamente come avviene oggi, in perfetto sincretismo religioso, con l’erezione di statue della Madonna all’imboccatura dei porti. La peculiarità odierna è che parecchi di questi antichissimi scali hanno ricevuto una onomastica di chiaro senso religioso ricalcante la Vergine Maria, quasi come se la religione cristiana volesse esorcizzare il paganesimo da tali contesti, come possiamo vedere ad esempio a Santa Maria del Mare ad Orosei sulla foce del Cedrino, a Santa Maria Navarrese a Baunei, a Nostra Signora di Buon Cammino a Cardedu, a Santa Maria su Claru a Quirra, a Santa Maria a Villaputzu, a Nostra Signora della Mercede a Muravera, a Santa Maria di Orrea a San Priamo, a Santa Maria di Bonaria a Cagliari, a Santa Maria di Palmas, a Santa Maria d’Itria a Portoscuso e a Santa Maria del Mare a Magomadas, solo per citarne alcune. In molte altre dove il cristianesimo non è giunto la toponomastica conserva ancora un nome che si rifà al concetto della Dea Madre, seppure con appellativi quali Bithia, come ad esempio a Domus de Maria e in località Turri a Sant’Antioco. Di riflesso appare ingiustificata la valutazione di alcune di queste strutture portuali viste come dedite alla prostituzione sacra, in quanto nella tradizione locale e nella memoria storica non ne rimangono tracce degne di considerazione. I segni di una continuità cultuale tra Bronzo Medio ed epoca repubblicana, e successivamente epoca cristiana, si possono intravedere nella figura della dea Demetra, posta nel Tempio a pozzo di Strumpu Bagoi a Narcao: in questo contesto la statuetta, in continum cultuale con la Dea Madre, viene rappresentata con le braccia aperte[36]. Nel sito di Pani Loriga, a Santadi, in prossimità della necropoli, è stato rinvenuto un tempio dedicato alla stessa divinità[37], stavolta in una postura - rappresentata da un kernophoros - che verrà ricalcata successivamente in epoca cristiana e impostata come immagine della Vergine Maria.



[1] R. W. Hutchinson, L’Antica civiltà cretese, Einaudi, Torino 1976, p.180
[2] M. Torelli, La storia, in AA.VV. (a cura di), Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Collana Antica Madre, Garzanti Scheiwiller per Credito Italiano UTET, Milano 1986, p.39
[3] L.R. Palmer, Minoici e micenei, Einaudi, Torino 1969, p.92
[4] J. Pirenne,  Storia della Civiltà dell’Antico Egitto, vol.II, Sansoni, Firenze 1962, p.57
[5] F. Cassola, L’organizzazione politica e sociale della Repubblica, in A.A.V.V. (a cura di), Roma e l’Italia. Radices Imperii, Collana Antica Madre, Garzanti Scheiwiller per Credito Italiano UTET, Milano 1981, p.6
[6] Palmer, Minoici e Micenei, p.92
[7] Hutchinson, L’Antica civiltà cretese, p.183
[8] Palmer, Minoici e Micenei, p.94
[9] E. Domenech, Pastori e banditi, Zonza Editori, Milano 1930, p.49
[10] Palmer, Minoici e Micenei, p.97
[11] G. Lilliu, La Civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Nuova ERI, Roma 1988, p.258
[12] Pirenne, Storia della civiltà dell’Antico Egitto, vol.I, p.43
[13] C. Zervos, La Civiltà della Sardegna, LSI, Sassari 1982, p.320, fig.389
[14] http://it.wikipedia.org/wiki/demetra
[15] D. Turchi, “Ho visto agire S’Accabbadora”. La prima testimonianza oculare di una persona vivente sull’operato de S’Accabbadora, Edizioni Iris, Oliena 2008, p. 24
[16] P. Bartoloni, Archeologia fenicio-punica in Sardegna. Introduzione allo studio, CUEC, Cagliari 2009, p.58
[17] Hutchinson, L’antica civiltà cretese, p.186
[18] M. Cabriolu, Sa Mamai Manna in “Làcanas”, 42 (2010), p.61
[19] G. Ugas, La Tomba dei guerrieri di Decimoputzu, Edizioni Della Torre, Cagliari 1990, p.124
[20] G. Lilliu, La Civiltà dei Sardi. Dal Paleolitico all’età dei nuraghi, Nuova ERI, Roma 1988, p.383; G. Lilliu, Fonni Loc. Bidistili o Durane, in E. Anati (a cura di), I Sardi: la Sardegna dal Paleolitico all’Età romana, Jaca Book, Milano 1984, p. 217
[21] G.P. Caredda,  Le tradizioni popolari della Sardegna, Archivio fotografico sardo, Nuoro 1993, p. 46
[22] Caredda,  Le tradizioni popolari della Sardegna, p. 46
[23] Caredda,  Le tradizioni popolari della Sardegna, p. 48
[24] Ugas, La Tomba dei guerrieri di Decimoputzu, p.122
[25] Caredda, Le tradizioni popolari della Sardegna, p. 50
[26] G. Ugas, L’Alba dei nuraghi, Fabula, Cagliari 2005, p.17
[27] www.museopaleoantropologico.it/album_venere.html
[28] Lilliu, La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei Nuraghi, Tav.110
[29] Lilliu, La civiltà dei Sardi dal Paleolitico all’età dei Nuraghi, Tav.114/b
[30] F. Barreca, La Civiltà fenicio–punica in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 1986, p.168, fig.138
[31] Barreca, La Civiltà fenicio–punica in Sardegna, p.160, fig.125
[32] Barreca, La Civiltà fenicio–punica in Sardegna, p.163, fig.131
[33] P. Bartoloni, Archeologia fenicio-punica in Sardegna. Introduzione allo studio, CUEC, Cagliari 2009, p.72, fig.74
[34] Bartoloni, Archeologia fenicio-punica in Sardegna. Introduzione allo studio, p.72, fig.74
[35] Domenech, Pastori e banditi, p.80
[36] F. Barreca, Narcao-Terreseu Loc. Strumpu Bagoi, in E. Anati (a cura di), I Sardi: la Sardegna dal Paleolitico all’Età romana, Jaca Book, Milano 1984, p.123
[37] P. Bartoloni, I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 2009, p.89

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