di Marcello Cabriolu
Ph: M.Cabriolu e Internet
La
Sardegna del Bronzo Medio manifesta inequivocabilmente, attraverso diverse
caratteristiche, un culto monoteista di radicata origine paleolitica colmo di
affinità con le culture che hanno vissuto le vicende legate alla talassocrazia
micenea o dei Popoli del Mare. La divinità celebrata era la Dea Madre, figura
di antica tradizione simboleggiata da un toro, da una colomba[1]
o anche da un’ascia bipenne, verosimilmente identificabile con la Grande Madre
mediterranea, con la Dea Madre epigravettiana del centro Europa e ancora con la
dea greca Demetra, e a cui successivamente venne aggiunto il culto del figlio,
il Sardus Pater, ovvero l’Antenato
eroe.
E’ doveroso precisare che i simboli religiosi - come ad esempio lo
scettro e la bipenne - conosciuti e utilizzati guarda caso anche dai Tursha,
diventeranno in epoca romana dei simboli di potere caratteristici degli assetti
repubblicani, nonchè attributi del magister
romano, o ancora ornamenti del trionfatore[2].
Essi andranno così a rispondere pienamente alle esigenze culturali romane o
meglio a creare, partendo da un contesto a noi nostrano, i fondamenti della
repubblica di Roma. Si è avanzato che il Juyghi
regnante si autoproclamasse come il discendente sulla terra del Sardus Pater, l’Antenato eroe, figlio
della Dea Madre. Tale elaborazione trova riscontro preciso nei regni egei, dove
i sovrani micenei, autocelebrandosi come figli di Potnia e definendo se stessi
Dio-figlio sulla Terra[3],
assolvevano alle funzioni sacerdotali della Dea Madre.
Ancora riscontri precisi
e considerazioni simili si possono trovare tra i re della XI dinastia di Tebe
in Egitto, i quali si vantavano di essere i figli della dea Mut – la “Madre” -
associata al dio Montu[4]; oppure
ancora nella Roma arcaica e in quella Repubblicana di profonda cultura Tursha, dove
esistevano residui monarchici quali i rex
sacrorum[5],
ovvero i sovrani - sacerdoti più importanti. Questa concezione cultuale non
rappresenta certo una novità visto che i micenei,
che in precedenza abbiamo già individuato come i Popoli del Mare, già identificavano in Anatolia e nella Penisola
greca una figura femminile denominata “Wanassa”,
dal significato di Regina o Dea Madre, legata al giovane Dio, suo figlio e
sposo e compagno, il “Wanax”, che
muore e risorge, e che in molte lingue portava il titolo di “Re” oppure
“Signore” oppure ancora “il Capo” (per es. Adone – Aton)[6].
Legati a queste figure religiose si possono citare delle celebrazioni
particolari quali la “festa di primavera” e la “festività dei morti”. La prima di
queste, corrispondente al primo di maggio con precisi riflessi nella Creta del
Medio Minoico II[7], culmina
con la celebrazione della preparazione del giaciglio per l’unione tra la Dea Madre
e il Figlio risorto, mentre la seconda, sviluppata su tre giorni, era caratterizzata
oltre che dalla commemorazione dei defunti anche dall’apertura degli otri del
vino novello[8],
abitudine tra l’altro ancora di largo uso in Sardegna.
Sempre in relazione alla
prima festività si può dichiarare che in alcune parti del Mediterraneo,
Sardegna compresa - come ad esempio accadeva ad Ozieri - si svolgevano
particolari rituali di fidanzamento, tramite la scelta di pani[9].
In occasione di questa celebrazione si usava ungere le pietre angolari dei
templi, rituale che poi si è adottato nelle celebrazioni del mese mariano e nei
rituali cristiani e musulmani[10],
e che viene ricordato, per i tempi più remoti, come officiato da parte delle
vergini sul menhir “Sa Frissa” di Ortueri[11].
Il rapporto tra Dea Madre e Dio figlio e sposo è un concetto religioso
conosciuto e rispettato persino nell’Antico Impero Egizio dove Mut, definita
anche Hator o Neith, generò Horo, il figlio fecondatore, conosciuto anche come
Khnum[12].
Nella teologia egizia la figura di Khnum, essere dal corpo umano e testa di
ariete, rappresenta l’acqua fecondante, forse in stretta relazione con la
decorazione del bagno termale di Sedda
sos Carros di Oliena, dove i getti dell’acqua sono abbelliti con delle
protomi d’ariete. Le affinità della Sardegna con il Levantino e il regno egizio
trovano ulteriore testimonianza nella figura di Min, divinità rappresentata
itifallica, in onore del quale veniva rappresentata la festa del raccolto, che
in accordo con la produzione bronzistica sarda può essere accostato al Danzatore
orgiastico con launeddas rinvenuto a Ittiri[13].
Alla voce “Demetra” l’enciclopedia multimediale Wikipedia riferisce che si
tratti della divinità indoeuropea denominata Dea Madre - Dheghom mater, che nel culto greco rappresenta la divinità del
grano e dell’agricoltura identificabile come artefice del ciclo della nascita,
della vita e della morte[14].
Nel culto romano viene identificata come Cerere e viene spesso confusa con
Gaia, Rea, Lusia - ovvero la divinità delle acque (Pausania 8.25.8) - o ancora Cibele.
Quest’ultima, conosciuta anche come Mater Magna, viene rappresentata seduta in
trono affiancata da due leoni. Se ne può trovare una sua celebrazione in un sesterzio databile al
160 d.C., che riporta nel dritto Faustina minore. Si suppone che le uniche
figure relitti della schiera sacerdotale del Bronzo Medio siano ora femminili e
che vengano rappresentate dalle Janas
accabbadoras, o meglio riassunte come sacerdotesse della morte[15],
ovvero quelle figure credute in possesso di capacità
curative e conoscenze chimico – botaniche e arti magiche che spesso assistevano
durante i parti e accompagnavano nella morte.
E’ verosimile pensare che la Jana
accabbadora si occupasse di effettuare il rituale del lavaggio e l’unzione[16]
del defunto nel pozzo sacro e che in questa sua funzione essa fosse assistita
unicamente da donne, in quanto tale usanza si è protratta sino ai giorni nostri
impedendo in maniera ferrea che qualsiasi individuo maschio partecipi o
supporti il rituale funerario. A questo punto è doveroso segnalare che nella
Creta minoica le Nereidi, riconosciute come fate, operavano nelle fonti sacre o
nelle “Case delle Fonti tagliate nella roccia”[17],
accostabili al tempio a pozzo di Su Tempiesu – Orune. Intanto si può affermare che
della Dea Demetra appaiono tracce nelle scritture in lineare B di epoca micenea
presenti a Pilo – Grecia e a Creta. Dopo aver imbastito il contesto culturale e
cercato di definire le figure principali, nonché aver accennato a quelle che
erano le manifestazioni della divinità in seno alla Lega dei Popoli del mare,
si indagano ora gli aspetti tipici
nazionali sardi, in cui le rappresentazioni della divinità del Bronzo Medio
risultano limitate esclusivamente alle statuette bronzee - nelle quali la Dea
Madre porta in grembo un capo, verosimilmente il Sardus Pater - e alle figure
scolpite sulle stele funerarie. Nasce spontaneo chiedersi il perché di così
pochi elementi rappresentativi della Divinità alla luce della consistente e
massiccia rappresentazione in epoca Neolitica e Calcolitica. Sin dal
Paleolitico superiore la cultura materiale sarda ha prodotto piccole statuette
in stile volumetrico di individui femminili, come ad esempio quella di S’Adde
di Macomer e quella di Cannas di sotto di Carbonia. Durante il Neolitico Medio
questa cultura è esplosa in numerosissime località, quali Cuccuru S’Arriu di
Cabras, oppure Cungiau de Marcu di Decimoputzu, oppure ancora Santa Mariedda di
Olbia, Corongiu Acca di Villamassargia e Monte Meana di Santadi, presentando
statuette a tutto tondo, come quelle rinvenute in località Polu di Meana Sardo,
o anche a placchetta cruciforme, rinvenute in località Turriga di Senorbì o a
Portoferro di Sassari. Insomma un campionario semplice e omogeneo distribuito
in lungo e in largo per la Sardegna, segno di un’unica cultura omogenea e
profondamente radicata sul territorio. La manifestazione di adorazione della
divinità continua nel Neolitico Recente attraverso i circa 400 Menhirs
aniconici appena sbozzati sparsi in tutta la Tyrrenide. Dai menhirs di Is
Cirquittus di Laconi a Su Para di Monte Idda di Decimoputzu, da Luxia Rabiosa
di Villaperuccio a Su Para e’ sa Mongia di Sant’Antioco, da Monte d’Akkoddi di
Sassari a Filitosa in Corsica, le pietre fitte, di statura differente,
presentano sezioni e forme diverse che sembrano legate alla collocazione geografica.
Le pietre fitte di prospetto ogivale e di sezione piano - convessa oppure
concavo – convessa, come Montarveddu I a Sant’Antioco e Noth Bilbster in
England, o quelle con sezione a pilastro ed emiciclo, come Montarveddu II e Su
de Burruccellu sempre a Sant’Antioco, o ancora Danthinelong Pierre – Terre de
Durbuy in Francia, collocate fronte ai quadranti orientali in prossimità di
sentieri, vengono descritte come celebranti l’Antenato, ma spesso questa
supposizione non trova fondamento. Se una destinazione d’uso religiosa e
celebrativa si può supporre per i menhirs collocati sugli stradelli conducenti
alle aree funerarie, non si può avanzare la stessa ipotesi per quelli sistemati
all’interno di cromlech o lungo le vie di comunicazione, che invece fungono
rispettivamente da collimatori per l’osservazione astronomica o da miliari
stradali, e che quindi si trovano completamente svincolati da qualsiasi
concetto religioso.
La funzione celebrativa e fertile della Divinità invece
viene espressa attraverso il rapporto dell’uomo con la Terra, definita come
Madre, e il suo seme: l’acqua. Si è spesso erroneamente dichiarato che i culti
della nazione nuragica siano stati vari in quanto si è spesso stati incapaci di
riconoscere che il culto della Madre Terra è sempre stato uno e unico e tutti
gli eventi altro non siano stati altro che rituali ad esso legati, proprio come
lo sono quelli attuali relativamente al culto cattolico, almeno nel contesto
sardo, ancora di profonda radice neolitica. L’inumazione dei defunti, non
ancora testimoniata in terra sarda in epoca paleolitica, è basata su rituali
ben precisi che si protraggono da epoche arcaiche sino ai giorni odierni. La Terra è concepita appunto come il ventre
gravido della Dea Madre e nella terra vengono scavati gli ipogei, prima
monocellulari poi pluricellulari, che ricalcano l’utero materno. Lo scavo degli
ipogei è spesso testimoniato in prossimità di sorgenti definite in Limba “stidius” o “mitzas” oppure orxjas, e
nel caso di assenza di acqua, essi sono dotati di canalette per la
concentrazione dell’acqua piovana[18],
caratteristica questa che trova precisi riscontri sia nelle Domus de Janas
pluricellulari che nei sepolcri dolmenici, sia che questi si trovino nella
Tyrrenide sia in altre località del Mediterraneo, quali Pantalica in Sicilia
oppure Giovinazzo in Puglia. Nella cella allagata, quasi a riprodurre il
liquido amniotico, veniva deposto in posizione rannicchiata o fetale il defunto,
non senza prima aver subito appositi “trattamenti” al fine di limitare la corruzione
della morte e auspicare la rinascita verso un’altra “vita”.
La morte di un
individuo ancora scatena delle procedure, isolate ad alcuni contesti sardi
ancora fortemente legati alle tradizioni, “necessarie” affinché vengano
limitate le conseguenze nefaste di un così grave evento. Dal lavaggio operato
esclusivamente dalle donne, testimoniato nella zona di Nurri, alla vestizione
del defunto con abiti e scarpe affinché possa attraversare comodamente ed
elegantemente l’Oltretomba, alla deposizione di oggetti cari al defunto
all’interno della bara, il culto dei morti reca ancora in Sardegna tanti
retaggi culturali di antica data. In un riassunto sintetico dei rituali
funerari operati sin dalla notte dei tempi possiamo individuare il lavaggio del
defunto, operato anticamente dalla jana nel pozzo sacro (come ad esempio
avveniva a Matzanni – Vallermosa - un insieme singolare di tre templi a pozzo -
almeno sino al IV sec.a.C.), con riscontri profondi nelle pratiche operate
dalle già citate Nereidi cretesi oppure nelle pratiche rituali officiate dai
sacerdoti egizi nella preparazione dei defunti per l’imbalsamazione. Studi accreditati ipotizzano che i defunti
preistorici venissero esposti alla luce solare prima della tumulazione, in
particolari aree dove, si è supposto, i cadaveri potessero essere scarnificati.
Tale ipotesi genera parere contrario nello scrivente che non riesce a
giustificare un tale trattamento alla luce dei rituali ben precisi e amorevoli
resi nei confronti dei defunti. Forse qualche studioso aveva già intuito che la
deposizione nell’acqua avrebbe portato alla corruzione dei corpi e dalle
analisi sui resti rinvenuti aveva supposto che addirittura i corpi avessero
subito una sorta di semicombustione. Di questa elaborazione lo studio di
Giovanni Ugas, sul rinvenimento di Sant’Iroxi di Decimoputzu, pone in dubbio
l’effettiva validità[19],
riconoscendola infatti come fuori luogo e fuori contesto rispetto a quella che
è la pertinenza cronologica e culturale. Analisi recentissime hanno rivelato
una componente minerale molto forte in alcuni templi a pozzo e rinvenimenti
personali hanno rivelato la presenza di bacili o di catini in prossimità dei
contesti funerari, suggerendo, visto il materiale di deposito sui bacili, che i
corpi potessero subire per diversi giorni lavaggi a base altamente salina con
prodotti quale il natron, tenendo
presente che nell’Antico Egitto i rituali di imbalsamazione duravano circa
quaranta giorni. Tale metodo avrebbe permesso un disseccamento maggiore del
corpo trattato, lasciando peraltro tracce simili ad azioni di combustione, adatto
alla fase successiva di deposizione del corpo in un contesto umido.
Alla luce di questa elaborazione è venuto spontaneo accostare a paragone di
quello sardo il rituale egizio per dimostrare gli stessi effetti rinvenuti sui
cadaveri e per suggerire il rapporto culturale intimo con l’elemento acqua e le
marcate affinità di rituali operati da parte di popoli, quali l’Egitto e gli
Shardana, venuti a contatto per lunghi periodi. Il legame tra defunto e acqua
viene riproposto anche nelle tombe dei giganti (Bidistili – Fonni), dove i morti
venivano adagiati su un vespaio di ciottoli fluviali[20],
quasi a rievocare il rituale della nascita nel grembo divino, con affinità
marcate alla naveta di El Tudons –
Ciudadela di Minorca, dove vennero usati per il rito ciottoli marini. Labili
esempi di tale antico retaggio rimangono ancora in centri come Bosa, dove sotto
il letto del defunto, o sotto la bara, venivano posti, sino a poco tempo fa,
catini con dell’acqua e una chiave, verosimilmente per aprire e chiudere la
porta del regno dei morti. E’ testimoniato in numerose località, che il defunto,
o l’individuo prossimo al trapasso, venisse adagiato sopra il “lettu de campu”, un pagliericcio
adagiato in cucina presso il focolare[21],
con i piedi rivolti verso l’uscio, pratica che richiama antiche credenze legate
alla permanenza delle anime degli antenati in prossimità del focolare
domestico. Una piccola contraddizione appare nell’analisi del rituale
dell’estrema unzione, sulla quale memorie recenti dichiarano che a questa non
dovessero assolutamente assistere le donne, usanza che contrasta con il ruolo
assunto in epoca preistorica dalla jana del tempio a pozzo e probabilmente
generatasi a seguito di una sorta di proibizionismo esercitato dalla religione
cristiana nei confronti delle figure femminili, un tempo cultualmente molto più
attive di adesso. Nello svolgimento dei rituali funerari assume un ruolo importante
“s’ammentu”, ovvero la confessione dei
peccati, adoperata, in assenza della figura religiosa preposta a tal compito, dal
familiare più anziano[22].
Successivamente all’accertamento del decesso si procedeva alla composizione del
defunto tramite le già citate operazioni di lavaggio e vestizione, da officiare
esclusivamente ad opera dei parenti stretti del defunto, con l’usanza,
individuata nella località di Cortoghiana, di sciogliere i nodi da tutti gli
indumenti del deceduto, comprese le scarpe, a simboleggiare la liberazione dai
legami con la vita terrena.
Il rituale funebre assumeva quindi carattere
pubblico con l’intervento, ad opera esclusiva della pia carità, delle attittadoras, ovvero delle piangenti.
Queste, generalmente in numero di nove, si sistemavano sedute per terra in
cerchio formando, attorno alla salma, “sa
roda” e iniziando la veglia intonavano “su
teu” o “attittu”, il canto
funebre celebrativo del coraggio e delle doti del defunto[23].
Tale usanza richiama fortemente precisi contesti funerari quali quello di Pranu
Mutteddu a Goni o di Gruttiacqua a
Sant’Antioco dove, negli estremi pressi delle Domus de Janas, venne eretto un
circolo di nove macigni ortostatici verosimilmente riflettente sa Roda appena citata. Una delle
credenze legate alla morte di un individuo di sesso maschile celibe era che
questi potesse tornare dall’oltretomba per portarsi via una donna al fine di
tenerla come compagna nell’aldilà. Per evitare che ciò accadesse, soprattutto
per proteggere da eventuali disgrazie le donne della famiglia, veniva inserita
all’interno della bara “sa pippia ‘e
pannu”, una sorta di bambola che potesse sostituire la femmina in carne ed
ossa nel viaggio del defunto verso l’oltretomba. Nonostante sia ferma
convinzione dello scrivente che la statuetta deposta nelle Domus rappresenti la
Dea Madre, questo esempio è stato citato apposta per invitare il lettore a confrontare
la presenza degli oggetti votivi negli ipogei con l’uso de sa pippia ‘e pannu, rivedendo
magari in questo rituale l’eventualità di un retaggio preistorico. Con la
deposizione degli individui in postura fetale, sia nella domus che nella tomba
dei giganti - in una prima fase con la testa verso il portello e il viso verso
E e in una seconda fase con i piedi verso il portello sempre con il viso verso
E[24]
-, si conclude l’analisi che vuole la sepoltura come la ricostruzione del
grembo materno, ovvero dell’utero della Dea. Alla celebrazione del funerale
detto “s’interru” seguiva “s’acconnortu”, cioè la cena o il pasto
in genere che veniva offerto a quanti avevano partecipato al dolore per la
dipartita[25]
dell’estinto. In alcune località del Sulcis Iglesiente è testimoniata la
preparazione del pane “su coccoi” e
de “is pabassinas”, elementi di forte
richiamo betilico. Questi prodotti, rigorosamente fatti in casa proprio per la
circostanza, vennero proibiti - in particolare il pane di “coccoi” - a causa di preconcetti legati al cristianesimo, il quale
vedeva come legate al demonio le forme “cornute” dell’impasto. In ultima
analisi viene riportata l’usanza di commemorare i defunti con la realizzazione
de “sa lantìa”, ovvero la lampada,
una sorta di lumicino colmo d’olio su cui galleggiava “sa mariposa”, un supporto fatto di latta e sughero nel cui foro, a
contatto con l’olio, passava uno stoppino. L’analisi di questa pratica
suggerisce nello scrivente un forte richiamo alle figure definite votive - in
virtù di alcuni studi - delle navicelle bronzee. Nonostante la creazione delle navicelle
sia, a detta di molti studiosi, una prassi dettata dalla credenza che l’anima
del defunto potesse giungere nell’Oltretomba attraverso quel mezzo, il confronto
di questi oggetti con la pratica funeraria ne suggerisce fortemente un uso quali
lucerne funerarie.
Per meglio spiegare questa funzione è doveroso citare il
fatto che nella creazione della navicella, al fine di condurre l’anima attraverso
gli inferi, gli egizi immaginavano appunto la presenza di una fiamma accesa a simboleggiare
l’anima del defunto. Attorno a questa fiamma, come appunto viene testimoniato
nel Libro dei Morti Egizio, andavano a sistemarsi tanti animali simboleggianti
la Dea quali cervi, colombe e arieti, la cui immagine ci suggerisce il
complesso di animali sistemati sulle sponde di una navicella nuragica. Dopo
aver cercato di descrivere e interpretare alcuni dei rituali funerari tuttora
in uso in Sardegna, appare scontato e giusto definire il presunto culto dei
morti come un insieme di rituali di sepoltura tradizionalmente legati ad un
unico culto per la Dea Madre. Riprendendo l’analisi del culto, sulla base di
valutazioni legate alle rappresentazioni, si può notare che in contesti
databili dall’Eneolitico al Bronzo Antico, le rappresentazioni della Dea calano
sensibilmente. Gli studiosi accreditati propongono la comparsa dei menhirs
antropomorfi - quali quelli rinvenuti nel Sarcidano e nel Mandrolisai - come
causa di questa scomparsa, interpretati come divisi in tre registri e la
sostituzione, nelle Domus de janas, della protome taurina con l’uomo capofitto[26].
I registri o settori delle statue menhir vengono interpretati come: il volto
stilizzato della Dea nella zona superiore; l’uomo capofitto o deceduto nella
zona centrale della statua e il simbolo del potere, quale il pugnale l’ascia o
lo scettro, nel registro inferiore. L’interpretazione esposta appare
consolidata negli ambienti scientifici, ma lo scrivente, a dovere di cronaca,
intende proporre delle varianti non ipotizzate finora sebbene testimoniate in
altri contesti quali quelli siciliani del Cozzo Busonè a Raffadali, dove due
venerette mesolitiche realizzate da ciottoli fluviali suggeriscono informazioni
differenti. La Venere rinvenuta nel pozzetto B16, di cui sono ben differenziati
il viso, il busto e gli arti inferiori, presenta delle parti decorate in ocra
rossa. Dall’osservazione del busto scaturisce la forma precisa del seno a cui è
avvicinato l’ombelico, creando una composizione che analizzata in contesti
differenti, senza avere come punto di riferimento gli arti inferiori, potrebbe
essere considerata il simbolo dell’uomo capofitto[27].
Sulla base di questa analisi lo scrivente invita ad una rilettura dei simboli
scolpiti sia sul registro centrale delle stele menhir che sulle pareti della
Domus Branca di Moseddu a Cheremule, suggerendo un’interpretazione di questi
come la rappresentazione dei seni della divinità - addirittura in alcuni casi
circondati dalle braccia -, come già suggeriscono le statuette funerarie neolitiche. Come precedentemente annunciato, all’incirca
verso il 2000 a.C., le varie rappresentazioni della divinità sia antropomorfe
che zoomorfe, scompaiono quasi completamente in contemporanea allo sviluppo di
un nuovo tipo tombale definito allée couverte, ampliato successivamente in Tomba
dei giganti (cfr 5.4). Non staremo qui a
disquisire sui contesti funerari già trattati precedentemente ma useremo questa
specie di spartiacque culturale per definire una fase transitoria da una
cultura esclusivamente matriarcale ad una con appena percettibili influssi
maschilisti. Si è preannunciata la scomparsa delle statue menhir e
dell’iconografia della Dea Madre per osservare la comparsa di elementi conici
definiti betili, raggruppati a gruppi di tre o anche di cinque elementi, che
caratterizzano alcune aree funerarie. Tali elementi, come quelli rinvenuti a
Tamuli di Macomer, possono presentare coppie di bugne, interpretate come seni,
ed essere identificati quindi come figure femminili. Si è già proposto
l’accostamento delle triadi betiliche con figure femminili affini alle Parche o
alle Janas (cfr 5.4), sottolineando che alcune di queste presentano, nel
registro superiore, delle incisioni glandiformi, quasi a rappresentare in un’unica
figura il femminile e il maschile allo stesso tempo, come è il caso di figure
bronzee più tarde (XII sec.a.C.) riprodotte itifalliche eppure dotate di seni.
E’ doveroso sottolineare che quasi contemporaneamente a questi cambiamenti
culturali il gruppo umano in questione, ovvero quello Sardo-Shardana, entra di
prepotenza sulla scena politica del Mediterraneo Orientale partecipando da
protagonista (cfr 4) a particolari eventi bellici e ricevendo in cambio
gratificazioni e incarichi di prestigio. Non è inverosimile considerare che i
particolari eventi bellici abbiano fatto leva sulla coscienza popolare sino a portarla
a creare e a celebrare dei miti e degli eroi, in virtù del fatto che gli stessi
accadimenti hanno fatto scaturire le stesse reazioni sia nella Penisola Greca,
nei miti cretesi e in quelli egizi. Non a caso le forme tombali assumono,
durante il Bronzo Medio, il Bronzo Recente e il Bronzo Finale, carattere di
monumentalità quasi celebrativa - in piena corrispondenza con le strutture funerarie
e monumentali egee - mentre le manifestazioni betiliche, attraverso i betilini,
assumono una forma di surrogato delle antiche statue dell’Eneolitico. Con uno
sguardo alla cultura materiale l’osservatore attento non potrà fare a meno di
notare che, dando valore cento alla totalità della bronzistica sarda, solo una
bassa percentuale rievoca la figura della Dea Madre con in grembo il Sardus
Pater (Sa Dom’e s’Orku di Urzulei)[28],
mentre un’alta percentuale riproduce guerrieri e capi.
L’interpretazione delle
opere rimane ancora dubbia, nonostante i numerosi studi condotti in merito, a
tal punto da definire alcuni guerrieri - come ad esempio il guerriero quattro
occhi e quattro braccia rinvenuto a Abini-Teti - come delle divinità. Se un’interpretazione
del genere fosse verosimile, si potrebbero riconsiderare anche quei pochi
elementi della bronzistica sarda riprodotti a cavalcioni di bovidi (Nuraghe
Orcu – Nulvi)[29]. Essi
infatti appaiono molto simili a rappresentazioni della Dea in ambito egeo o in
ambito egizio, e a maggior ragione aiutano
nel sostenere una messa in secondo piano della figura femminile per
un’esaltazione di quella maschile, con pieno sincretismo religioso con l’attuale
religione cristiana. Pare doveroso adesso citare la situazione religiosa che si
viene a creare con la fondazione dei supposti tophet, già discussi come templi
del Sardus Pater, in quanto questi vedono accompagnati dalla comparsa dei cippi
funerari, definiti stele, con decorazioni grossolane, che a rigor di logica
dovrebbero invece pian piano assumere carattere di precisione e ricchezza di
particolari artistici. Gli esemplari a confronto vanno da una stele ad
incisione, datata II sec.a.C., del tophet di Monte Sirai[30],
che riproduce una figura umana talmente semplice che sembra graffitata da un
bimbo, ad una con triade betilica sormontata da disco solare e crescente lunare[31],
più rifinita della precedente, datata IV sec.a.C. e rinvenuta a Nora, sino ad
un esemplare con gola egizia sormontata da aurei soprastanti Horo[32],
con figura femminile. Per quanto riguarda quest’ultima stele – della quale gli
archeologi Ferruccio Barreca e Piero Bartoloni cercano di stabilire la
provenienza[33] - le
rifiniture sono addirittura eccellenti, nonostante la datazione sia la più alta
fra quelle finora prese in esame, ovvero il V sec. a.C.[34].
Questa elaborazione storica parrebbe meno sgangherata e imprecisa se venisse
rivista e ridatata, soprattutto alla luce di quelle che erano le capacità
scultoree di un gruppo umano capace di creare, nel Bronzo Recente, opere di
alta qualità artistica, quali i pozzi sacri di Santa Cristina di Paulilatino o
di Predio Canopoli di Perfugas, oppure ancora le statue di Monti Prama di
Cabras. Soprattutto questa comparazione ci servirebbe forse a capire perché nel
Bronzo Medio non siano riconosciute le raffigurazioni divine e quindi a
collocare le stele più arcaiche e imprecise in questo periodo. Tralasciando per
un attimo le testimonianze fittili e monumentali di interpretazione cultuale,
pare doveroso citare i rituali considerati pagani, eppure tuttora celebrati attraverso
la religione cristiana, per individuare quelli che erano i rituali arcaici.
[1]
R.
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[2]
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[3]
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[4]
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[5]
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[6]
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Minoici e Micenei, p.92
[7]
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L’Antica civiltà cretese, p.183
[8]
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[9]
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[10]
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[11]
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[12]
Pirenne,
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[13]
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[15]
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[16]
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[17]
Hutchinson,
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[18]
M.
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[19]
G.
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[20]
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